Il rendimento reale di un asset finanziario non è altro che la differenza tra il suo rendimento nominale e l’inflazione, il dato è importante perché permette di valutare quale è il ritorno effettivo per il titolare.
In questo momento negli Stati Uniti la differenza tra il tasso base interbancario (fed funds rate) e l’inflazione è negativa per oltre il 7,5%. Ciò significa che il denaro depositato in banca al tasso base comporta una svalutazione negativa del capitale della medesima percentuale ogni anno. Nel momento in cui stiamo scrivendo questo articolo, anche il titolo governativo decennale USA, considerando l’inflazione attesa, riporta un rendimento annuo negativo dello 0,88%. Rendimenti così negativi non si vedevano in USA dal 1951.
La situazione non è molto diversa per l’area euro, in cui se si confronta il tasso di interesse interbancario e l’inflazione, il rendimento negativo supera il 5,5%. Anche in questo caso, per quanto sia più complicato ricostruirne l’evoluzione (l’euro è nato nel 2002), tassi così negativi, per la media dei paesi che fanno parte dell’area, non si vedevano dagli anni ’50.
Anche l’evoluzione storica delle due aree non è molto diversa. Se osserviamo il rapporto tra tasso base e inflazione nell’area euro nella figura qui sotto, vediamo come lo spartiacque più recente sia stata la grande crisi finanziaria del 2008, dopo la quale i rendimenti a reddito fisso sono rimasti sempre negativi.
Non molto diverso è l’andamento del rendimento reale negli USA per cui in questo caso è stato utilizzato un confronto tra il rendimento del titolo governativo a 1 anno e l’inflazione (il rendimento reale è indicato in blu, in rosso l’inflazione e in nero il rendimento del treasury ad 1 anno).
Per cercare di comprendere le dinamiche precedenti il 2008 utilizziamo un working paper scritto oltre dieci anni fa sull’argomento (quando il fenomeno dei rendimenti negativi era appena all’inizio), ma che ci fornisce oltre ad alcuni possibili spunti interpretativi, interessanti analisi quantitative di sintesi sull’evoluzione dei rendimenti reali in tutto il pianeta dal dopoguerra al 2009: “The liquidation of government debt” – pubblicata nel 2011 dal National Bureau of Economic Research ad opera di Carmen M. Reinhart e M. Belen Sbrancia.
Come mostrato nella figura qui sotto, l’evoluzione dei tassi reali sui depositi (ed il fenomeno è simile per quelli sui bond governativi) può essere divisa in due periodi ed ha come spartiacque i primi anni ’80.
Se dagli anni ’80 i tassi reali (sino al 2009, data a cui si ferma questa analisi) sono stati sempre mediamente positivi (l’analisi è suddivisa tra economie emergenti, in verde e avanzate, in arancione) nel periodo precedente (a partire dal dopoguerra) i tassi reali sono stati mediamente quasi sempre negativi.
Il periodo che va dunque dal 1945 al 1980 viene definito dalle autrici di “repressione finanziaria”. Il termine venne in realtà “coniato” negli anni ’70 e fa riferimento a manovre da parte dei governi per limitare i rendimenti ben al di sotto dei tassi di inflazione, con l’obiettivo di erodere il debito pubblico ad evidente svantaggio dei detentori di depositi e obbligazioni.
È proprio in relazione all’evoluzione del debito pubblico che si orienta l’interpretazione delle autrici sull’andamento dei rendimenti reali nei due periodi (prima e dopo il 1980): i rendimenti fortemente negativi nel periodo del dopo guerra sono stati uno strumento utile per recuperare il debito post-bellico.
I rendimenti negativi lavorano a favore del debitore e fanno meno “rumore” degli strumenti fiscali (la tassazione) tanto che da qualcuno sono definiti una “tassa occulta”.
Le figure riportate sotto riportano l’andamento medio del debito pubblico globale (suddiviso tra i medesimi macro-aggregati: economie emergenti e avanzate) e quello degli Stati Uniti.
La discesa del debito nei 35 anni successivi alla seconda guerra coincide in maniera piuttosto evidente con il periodo di “repressione finanziaria”.
Gli strumenti utilizzati per mantenere i tassi ben al di sotto dell’inflazione erano sostanzialmente due. Da un lato una limitazione alla circolazione dei capitali (che lo stesso sistema di Bretton Woods prevedeva) e dall’altro l’imposizione di limiti alle possibilità per le banche di pagare tassi di interesse che permettevano di mantenere i tassi pagati ben al di sotto dell’inflazione corrente. Con la fine del sistema di Bretton Woods vennero progressivamente meno sia gli strumenti di limitazione alla circolazione dei capitali, sia, entro i primi anni ’90, i limiti per le banche alla possibilità di concedere tassi di interesse oltre una certa soglia. Il risultato fu che a partire dagli anni ’80, con un debito pubblico ormai ridotto al minimo e pur con una crescita economica ben inferiore ai 35 anni precedenti, i rendimenti reali tornano mediamente positivi sino alla grande crisi finanziaria del 2008-2009.
Ma quali sono stati gli effetti della repressione finanziaria sul debito pubblico sino al 1980? Secondo le stime delle autrici i punti di PIL di debito annuo andarono dal 3% circa per paesi come gli Stati Uniti e lo UK, al 5% per paesi con inflazione più elevata come Italia e Australia. Numeri che aiutano a far scendere il debito pubblico e arrivare a minimi da cui poi, negli anni successivi il 1980 e sino al 2020, non si è più smesso di salire.
Se quindi è vero che i tassi nominali sono stati in costante discesa dagli anni ’80, limitarsi a questo dato rischierebbe di farci perdere una importante informazione, cioè quella dei rendimenti reali, che proprio dagli anni ’80 iniziarono a diventare invece positivi. Fino a quando? Fino alla crisi finanziaria del 2008, dopo la quale ci si ritrovò con un debito sempre più elevato e i rendimenti reali ricominciarono a diventare negativi.
In questo lavoro (scritto nel 2011), le autrici prevedono la possibilità del ritorno di un lungo periodo di repressione finanziaria, volta a ridurre progressivamente il debito creato. A oltre dieci anni di distanza non si può dire che le cose siano andate diversamente e soprattutto che non potrebbero continuare nei prossimi anni.
Ma quali sono stati gli strumenti attraverso cui è stata attuata la “repressione finanziaria” dal 2008 in poi?
Se è vero che i movimenti di capitale sono ormai totalmente liberi (almeno nei paesi occidentali) e non esistono limiti ai tassi di interesse che possono essere corrisposti, è anche vero che da un lato sui mercati della liquidità sono sempre più diventati importanti come attori le banche centrali, il cui bilancio, proprio a partire dal 2008, è stato pesantemente accresciuto. Dall’altro, la regolamentazione più stringente per le banche private, nata proprio sulla scia della crisi dei subprime, e del sistema bancario, ha contribuito a ridurre di molto la disponibilità delle banche a correre rischi, accrescendo ulteriormente la quantità dei depositi rispetto a quella dei prestiti concessi.
L’azione delle banche centrali è stata nell’ultimo decennio sempre accomodante, sia sul lato delle iniezioni di liquidità, sia su quello dei tassi, tanto da portare una buona parte dei rendimenti nominali delle obbligazioni a valori negativi (ne parlammo abbondantemente qui: https://www.dirittofuturo.org/wp-content/uploads/2020/04/OSFI_Scenario_di_finanza_internazionale_n_4_settembre_2019.pdf ). A fronte di un debito sempre crescente, la loro tolleranza verso una possibile inflazione d’altro canto è molto probabile sia cresciuta progressivamente e anche in periodi “non sospetti” (quando l’inflazione era ancora sostanzialmente assente, nell’agosto 2020) la banca centrale americana modificava i propri target di inflazione da fissi (al 2%) a medi, senza peraltro stabilire il periodo su cui tale target medio venisse calcolato e di fatto lasciandosi mano libera nel breve periodo. Tanto è che, solo recentemente, quando l’inflazione ha superato il 7%, la Fed ha ammesso che era diventata troppo elevata, iniziando, senza mostrare troppa fretta, a promettere di alzare i tassi in futuro (tassi che ora comunque sono ancora allo 0,25% e potrebbero stazionare intorno al 2% a fine anno). Non è stata nel frattempo da meno la BCE, e nemmeno i tedeschi (che sono stati il paese con tassi più pesantemente negativi in questi anni grazie alla forza del bund) sembrano sollevare troppe proteste per una inflazione oltre il 5% e di rialzare i tassi, per ora, nessuno ne ha ancora parlato in maniera ufficiale, nemmeno di fronte a domande esplicite.
È evidente che le ragioni per mantenere i tassi bassi sono state diverse in questi anni. Da un lato la crescita del debito pubblico, ma anche di quello privato, a volte erogato in forme rischiose come quello high yield e con strumenti sintetici come i CLO (ne abbiamo parlato qui https://www.dirittofuturo.org/wp-content/uploads/2020/07/Rapporto-OSFI-7-Giugno-2020.pdf) . Il risultato dell’azione delle banche centrali (cresciuta addirittura esponenzialmente con la pandemia di COVID) è stato che la massa di liquidità immessa e i tassi bassi hanno di fatto eliminato dai mercati finanziari la componente di rischio (https://www.dirittofuturo.org/?p=1322 ), portando anche gli asset più rischiosi come i junk bond, negli ultimi anni, ad avere rendimenti reali a minimi storici e in alcuni casi negativi, ma sino a che l’inflazione si era mantenuta su valori relativamente bassi il peso di questa “tassa occulta” era stato molto meno visibile.
L’impennata dei prezzi dal 2021 ha reso più evidente il fenomeno, che se da un lato può aiutare i paesi più indebitati a limare diversi punti di debito, dall’altro rischia di riportare l’inflazione a livelli difficilmente sostenibili, sia per dal punto di vista sociale sia per l’impatto che può avere nel medio periodo sulla crescita economica stessa.