Il PIL della Russia nel 2020 era pari a poco meno di 1500 miliardi di dollari. A tal proposito è utile fare due confronti. Il primo riguarda le dimensioni di questa economia, che sono di poco superiori a quelle della Spagna (1280 miliardi) che ha però una popolazione pari a un terzo di quella russa. Il secondo confronto è di tipo temporale: dal 2013 (quando era pari a 2300 miliardi) al 2020, il pil del paese è sceso del 35%.
Nella figura qui sotto un confronto tra le dimensioni dell’economia russa con USA, Eurozona, Cina, Italia e Germania.

Il declino economico del paese va di pari passo (anche se non ne è l’unica causa) con quello demografico. La Russia dal 1991 ad oggi ha perso 4 milioni di persone, la speranza di vita è di 72 anni (77 anni per le donne, a fronte di 67 anni per gli uomini), otto anni in meno rispetto alla media OCSE.
La Russia ha un debito pubblico piuttosto basso, 17,8% del PIL, nonostante questo il suo debito sovrano è valutato dalla maggior parte delle agenzie al limite del livello di Investment Grade (BBB) anche se Standard & Poor’s ha recentemente tagliato la sua valutazione a BB+ (junk).
Il principale vantaggio della Russia sono però sicuramente le esportazioni, in modo particolare quelle di materie prime legate all’energia. Nel 2020 sono state pari a 332 miliardi di dollari. Oltre il 40% di queste riguardano materie prime del settore energetico. Nel loro complesso le esportazioni legate alle materie prime pesano per oltre il 70% rispetto al totale. In parallelo alla forza del suo export emerge dunque anche una debolezza che è proprio dovuta alla eccessiva dipendenza dall’andamento di questo settore e dalle sue escursioni di prezzo. Per il momento la Russia non ha investito a nostro parere a sufficienza su possibilità alternative per il proprio futuro, anche in vista di un possibile declino degli idrocarburi fossili come fonte di energia e questo costituisce senza dubbio una grande incognita.
Grazie a questa ricchezza, in ogni caso, la Russia è riuscita ad accumulare negli anni quantità crescenti di riserve valutarie che alla fine del 2021 ammontavano a 630 miliardi di dollari, come mostrato nella figura qui sotto.

La maggior parte delle riserve in valuta presso le banche centrali sono normalmente in dollari. Questo è dovuto alla prevalenza del dollaro negli scambi internazionali e in modo particolare in quelli di materie prime. Secondo le ultime rilevazioni del FMI, nel 2021 il 59% delle riserve erano in dollari, il 20% in euro, il 5,85 in yen giapponesi e il 2,66 in Yuan cinesi. La Russia, per motivi prevalentemente geopolitici, ha progressivamente ridotto nel tempo la sua quantità di riserve in dollari (che ammontano appena al 16%). Il 32% sono in euro e il 13% sono in yuan. Esiste poi una quota di riserve in oro (che hanno tutti i paesi) del 21%.
Nella figura sotto la ripartizione geografica delle riserve valutarie e la sua evoluzione negli ultimi anni. Come si vede il paese ha progressivamente ridotto l’allocazione in Europa e negli USA per incrementare le riserve in oro e quelle detenute in Giappone e in Cina.

Gli Stati Uniti, il Canada, la Gran Bretagna e l’Unione Europea hanno annunciato, nella giornata di sabato 26 febbraio, il congelamento delle riserve della Banca Centrale Russa detenute in Europa. Non ci sono precedenti in tempi recenti per una misura del genere se non per Iran e Venezuela.
A cosa servono le riserve valutarie e quale può quindi essere l’impatto di queste misure?
Le riserve valutarie, che crescono insieme alle esportazioni (dato che in tal modo affluisce valuta straniera), costituiscono un asset delle banche centrali e sono utilizzate, tra le altre cose, per finanziare le importazioni da un lato e dall’altro per operazioni sul mercato valutario quando è necessario difendere la valuta da un eccessivo deprezzamento (vendendo le riserve e comprando la propria valuta). Successe ad esempio nel 2014 di fronte alla crisi della Crimea e alle sanzioni comminate al paese che portarono a un crollo del rublo e al rischio di una fuga di capitali e anche nella giornata di venerdì 25 febbraio la Banca Centrale Russa ha annunciato di aver fatto questo tipo di operazioni. Il venir meno delle riserve valutarie può essere un grosso problema per un paese, data l’impossibilità di frenare il deprezzamento della valuta che può creare un effetto panico a spirale e alimentare la fuga di capitali che si verificano quando viene meno la fiducia nella stabilità finanziaria del paese e del suo sistema bancario.
Se è vero che le riserve valutarie della Russia, come mostrato, sono ingenti, il congelamento di una parte di esse (quelle detenute presso i paesi che hanno comminato le sanzioni) oltre che la loro prevedibile diminuzione a seguito del calo delle esportazioni (dovuto alle altre sanzioni) e della necessità di cercare di frenare la fuga di capitali sostenendo il valore della propria valuta, potrebbero mettere in difficoltà il sistema finanziario del paese. Un forte deprezzamento della valuta (come già avvenne nel 2014) può inoltre favorire un rapido incremento dell’inflazione (attualmente all’8%) con un impatto sui consumi e sull’intero sistema economico.