GLI EFFETTI (SULLA CINA) DEL POSSIBILE DEFAULT DI EVERGRANDE

Nelle ultime settimane la Cina è balzata agli onori delle cronache finanziarie a seguito delle difficoltà in cui versa la società Evergrande Real Estate, società immobiliare a capitale privato la cui capogruppo (Evergrande Group) ha sede legale alle isole Cayman. Evergrande Group, che conta circa 200.000 dipendenti, oltre che nel settore immobiliare (per cui è il secondo operatore in Cina) è attivo in altre aree di business come i beni di consumo, le auto elettriche e i servizi di intrattenimento.

L’indebitamento della società è progressivamente cresciuto negli anni, sino alla cifra di 300 miliardi di dollari (pari al 2% del PIL del paese) e nelle ultime settimane ha annunciato difficoltà nel pagamento delle prossime cedole delle sue obbligazioni.

Queste notizie hanno fatto crollare il prezzo dei titoli in borsa e il valore dei suoi bond e crescere le ipotesi di un default della società. Nei fatti il futuro della società è nelle mani del governo cinese (tramite la banca centrale del paese), senza il supporto del quale (se tramite rifinanziamento o acquisizione parziale di alcuni rami della società non è dato al momento saperlo) il default appare ormai certo.

La crisi di Evergrande ha risollevato i timori, che aleggiano da diversi anni, di uno scoppio della bolla immobiliare in Cina, settore che occupa circa il 30% del PIL del paese, tanto che da alcune parti si è inizialmente richiamato alla crisi dei mutui subprime partita dagli USA nel 2008, e ad un rischio di contagio nel sistema finanziario nell’intero pianeta.

Nella realtà né il paragone con quanto successe in USA, né i rischi di contagio (finanziario) appaiono fondati. Riguardo il primo punto è bene ricordare che la crisi dei mutui subprime, se da un lato partì da un eccesso dei prezzi degli immobili, dall’altro il suo fattore scatenante fu la proliferazione di strumenti derivati che avevano come sottostante i mutui subprime stessi e che avevano creato una piramide finanziaria altamente speculativa che quando collassò coinvolse l’intero sistema finanziario americano (incluse diverse grandi banche, alcune delle quali fallirono) e fece sprofondare il paese e l’intero pianeta in una profonda recessione. Nulla di tutto ciò è presente in Cina in questo momento ed è bene ricordare che in generale il mercato dei derivati in questo paese è ancora piuttosto giovane e molto poco liquido.

Riguardo il rischio di contagio sui mercati esteri, nel caso della crisi dei subprime, esso ci fu perché sui titoli di debito emessi esisteva una forte esposizione anche da parte di banche e operatori finanziari non americani (e in modo particolare europei). La situazione della Cina è attualmente molto diversa.

Come mostrato nella figura sotto, il debito cinese è piuttosto elevato, secondo solo a quello USA in valore assoluto ed il primo se confrontato con il suo PIL: il 335%. Oltre a questo, è in costante crescita, in modo particolare quello privato, in cui viene conteggiato, oltre al debito delle famiglie, delle istituzioni finanziarie e delle aziende private, anche quello delle aziende in mano allo stato (SOE: state owned enterprise).

Il debito cinese è però in buona parte detenuto all’interno del paese e il suo mercato obbligazionario, che pur è il secondo al mondo, è soprattutto costituito da bond cosiddetti onshore, cioè destinati all’acquisto da parte di residenti in Cina.

Oltre a questo, è bene ricordare che la possibilità per i risparmiatori privati cinesi di acquistare obbligazioni è ancora piuttosto limitata ed il mercato è in buona misura in mano al sistema bancario (in gran parte statale) che detiene oltre il 90% degli asset finanziari in circolazione (quindi sia obbligazioni sia prestiti) e il 70% delle obbligazioni, solo l’1% è in mano ai piccoli investitori.

Le cosiddette obbligazioni off-shore (cioè destinate al mercato estero) sono una parte molto ridotta del complesso del mercato obbligazionario cinese e ne costituiscono ora poco più del 3%, come mostrato nella figura sotto, in cui si può però apprezzare la crescita che questo mercato sta registrando negli ultimi anni, seppur il suo peso, rispetto al totale dei bond emessi in Cina, e ancor di più rispetto al totale di quelli emessi nel mondo, sia piuttosto marginale.

Tornando allo specifico caso di Evergrande, i suoi bond offshore (cioè quelli destinati ad operatori esteri) sono classificati come High Yield, dato il loro livello di rischiosità. In questa categoria, l’esposizione mondiale sui bond High Yield cinesi è pari solo al 4% del totale di quelli emessi nel pianeta, come mostrato nella figura sotto e di questi i bond di Evergrande, secondo una stima fatta da UBS, ne costituiscono circa il 10%.

L’effetto della crisi della società Evergrande sarà quindi prevalentemente sulla Cina stessa e un eventuale contraccolpo sugli altri paesi sarà di tipo economico, qualora questa vicenda dovesse in qualche modo impattare la crescita dell’unico tra i grandi paesi che nel 2020 è riuscito a chiudere l’anno con un PIL superiore a quello dell’anno precedente.

Come ampiamente illustrato nel nostro report sul sistema finanziario di questo paese,

https://www.dirittofuturo.org/wp-content/uploads/2021/01/OSFI_Scenario_di_finanza_internazionale_n_9_dicembre_2020.pdf

la scelta della Cina è tutt’ora quella di limitare la libertà di circolazione dei capitali finanziari, sia in ingresso sia in uscita. Se da un lato esiste un limite alla possibilità per i privati di far uscire capitali o investire all’estero senza una autorizzazione governativa, dall’altro anche l’acquisto di azioni e di debito cinese da parte di altri paesi (lo abbiamo visto) è ancora controllato e limitato. Si tratta di una scelta politica, che è favorita anche dal forte attivo che ha la bilancia commerciale del paese e che gli permette di avere un debito estero piuttosto basso, seppur in crescita costante, come mostrato nella figura qui sotto e che si può apprezzare se si confronta questo numero (2.500 miliardi di USD) con il medesimo numero per gli USA che supera i 21.000 miliardi di dollari.

Indipendentemente dal modo in cui la Cina affronterà questa crisi, è ormai da un anno che il governo cinese da segnali di crescente preoccupazione (ribaditi nell’ultimo piano quinquennale annunciato a marzo) rispetto alla crescita dell’indebitamento interno, sia limitando i salvataggi anche verso società in mano allo stato (nell’ultimo anno è sensibilmente aumentato il numero di default), sia ponendo limiti all’indebitamento delle stesse, cosa che ha messo in seria difficoltà non poche società proprio nel settore immobiliare. Del resto se, come pare, la scelta è quella di continuare a limitare il ricorso ai mercati esteri per trovare fonti di finanziamento, sembra più che legittima la preoccupazione del governo di limitare l’indebitamento complessivo che, seppur interno, non può essere infinito, dato che, a tendere, non può essere infinita la disponibilità del mercato interno a comprarlo, soprattutto a fronte delle aspettative di maggiori investimenti interni e minori avanzi della bilancia commerciale, secondo quanto annunciato a inizio anno con la strategia della “doppia circolazione”, volta a migliorare le condizioni della classe media e ad accrescere ulteriormente gli investimenti nel settore della tecnologia. Il prezzo da pagare è una maggiore attenzione all’efficienza del settore pubblico (e non solo) e al modo in cui viene impiegato il debito, soprattutto quello delle municipalità che ammonta ufficialmente a 26.000 miliardi di yuan, dietro il quali però, secondo una stima fatta da Standard % Poor’s nel 2018, ce ne potrebbero essere altri 40.000. Debito, quello delle municipalità, che non viene emesso direttamente, ma utilizzando società veicolo (le cosiddette LCVs: Local government finanancing vehicles) ed è spesso non registrato in maniera ufficiale, questa la ragione per cui il governo cinese sta cercando di limitare le possibilità di indebitamento e ha aumentato i controlli su queste società.

È di poche settimane fa la notizia pubblicata da Bloomberg riguardo il collocamento da parte di alcune di queste municipalità, in via sperimentale, di bond off-shore da collocare all’estero. Che si tratti davvero solo di un “esperimento” o piuttosto di una reale necessità per attrarre capitali a fronte di crescenti difficoltà nel reperirlo “in casa” non è dato saperlo. La crescita nell’emissione di bond off-shore soprannominati “dim sum bond”, cioè bond denominati in Yuan off-shore (la valuta parallela scambiata solo all’estero) può essere però significativa della necessità di reperire capitali da parte di alcuni attori nel mercato cinese.

Se quindi pare scongiurato un contagio finanziario globale e difficilmente questa vicenda potrà creare uno tsunami finanziario all’interno del paese, più importanti, anche se osservabili in tempi più lunghi, potrebbero essere gli effetti sia sul mercato immobiliare sia sulla politica del governo cinese volta a ridurre l’eccesso di debito da parte degli operatori economici, pubblici o privati che siano. Se, nonostante questo, il governo cinese riuscirà a mantenere i suoi obiettivi di crescita, lo scopriremo solo nel tempo.

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