Martedì 3 agosto si è tenuta l’ultima riunione della Banca Centrale australiana (RBA, Reserve Bank of Australia). Il board ha confermato per il momento i tassi di interesse allo 0,1%. Se si guarda allo scenario dei tassi di interesse definiti dalle altre banche centrali dei paesi maturi, non si vede in questo nulla di nuovo. Dal marzo del 2020 tutte le banche hanno portato i tassi sostanzialmente a 0, o negativi. Tuttavia, per chi negli anni ha seguito l’andamento del mercato valutario e in generale dei tassi di interesse e non è ancora assuefatto alla “giapponesizzazione” delle politiche monetarie, questo numero non può non colpire.
Il dollaro australiano, infatti, è sempre stata la valuta, tra quelle dei paesi maturi, i cui depositi hanno storicamente fornito tassi più elevati. Tra i motivi ci sono sicuramente quelli legati al peso sulla sua economia del settore delle materie prime (di cui consiste oltre il 70% delle sue esportazioni) oltre che una posizione finanziaria verso l’estero costantemente negativa, fattori questi che hanno sempre reso quella australiana una economia fortemente ciclica e quindi, in sé, più rischiosa delle altre, e costretta quindi a pagare interessi più elevati sul proprio debito.
Persino nel periodo successivo alla grande crisi finanziaria del 2008 i tassi australiani non scesero mai al di sotto del 2,5%, quando anche quelli degli USA (per non dire di Europa e Giappone) erano scesi a zero. Come mostrato nella figura qui sotto, dagli anni ’90 avevano sempre oscillato tra il 5 e il 7%.
Che quindi l’Australia si possa permettere oggi di pagare interessi così bassi è la miglior cartina tornasole per comprendere il processo che è stato avviato dal 2008 ad oggi e che ha raggiunto il parossismo nell’ultimo anno e mezzo. I tassi di interesse sono una rappresentazione del rischio che ci si assume nel detenere una certa valuta (e di conseguenza un determinato debito in essa denominato o in capo al paese che emette quella valuta), oggi, ad osservare i tassi delle principali economie mondiali, di cui forniamo una sintesi qui sotto, parrebbe che il rischio sia scomparso ovunque, al netto delle cosiddette economie emergenti e della Cina che ancora pagano interessi superiori all’1% (con il picco della Turchia che è costretta ad arrivare al 19%) .
La causa scatenante di questo fenomeno, ne abbiamo scritto diverse volte, non è l’epidemia di covid che ha solamente accelerato un processo in divenire da diversi anni, ed almeno dal 2008. Difficile dire per quanto possa durare questa “eclissi del rischio” nella finanza internazionale, che riguarda a maggior ragione il debito privato anche nelle sue forme più “teoricamente” rischiose, cosiddette high yield. Difficile altrettanto dire se siamo arrivati al punto in cui sia ormai troppo tardi per poter “scoprire le carte” e andare a vedere la reale portata di questo rischio, troppo tardi senza evitare conseguenze che potrebbero essere sistemiche. È anche per questo che la parola chiave sta diventando: “exit strategy”. Ci si chiede sempre più pressantemente se esista una strategia di uscita da questa situazione, ma sarebbe anche opportuno chiedersi se qualcuno ci ha davvero pensato. Se così non fosse, è probabile che il ritorno alla “normalità” possa non essere graduale.
Una risposta a “L’AUSTRALIA E LA SCOMPARSA DEL FATTORE RISCHIO”