Se la diffusione del dollaro americano nel mondo rappresenta un caso di sovra rappresentazione rispetto alla reale forza dell’economia statunitense, la valuta cinese, il renminbi (detto anche yuan) è, all’esatto opposto, assai poco diffuso rispetto al ruolo di seconda potenza economica che il dragone ha raggiunto. Se il PIL cinese è circa il 13% di quello mondiale, la sua valuta ha una importanza ancora marginale negli scambi valutari stessi, nel commercio internazionale e negli investimenti internazionali di capitali. Questo è il risultato di una scelta delle autorità cinesi che hanno sempre adottato una politica di controllo dei capitali e del tasso di cambio. Nonostante le limitate aperture su entrambi i fronti, il governo cinese tuttora esercita un forte controllo sui capitali in entrata e in uscita nel paese ponendo limiti e controlli sui privati e alle imprese per l’uscita degli stessi ed esercitando un controllo, tramite autorizzazione, sulle istituzioni che possono investire in Cina.
Le ragioni di questa scelta si legano alla storia economica del paese degli ultimi 40 anni e fanno un tutt’uno con una scelta del governo di aprire all’economia di mercato e agli investimenti esteri pur mantenendo la guida dell’indirizzo economico e degli investimenti stessi in mano al governo e dunque al Partito Comunista. Permettere una libera circolazione di capitali esporrebbe il paese ad alcuni rischi che sono sino ad ora stati incompatibili con le scelte del governo. In primis, il sistema bancario, vera istituzione cardine del sistema finanziario del paese e principale veicolo delle politiche di crescita economica, non reggerebbe una fuoriuscita di capitali ad opera degli investitori e risparmiatori interni. Il sistema potrebbe avere seri contraccolpi soprattutto in caso di crisi finanziarie internazionali, rischiando fenomeni di fuga di capitali. Allo stesso tempo un afflusso di capitali incontrollato rischierebbe di far perdere il controllo del valore della valuta rendendo quindi meno competitive le esportazioni del paese, uno dei cardini su cui si è basato il modello di crescita cinese, almeno sino ad ora. Con lo stesso obiettivo (non perdere il controllo del valore del tasso di cambio, in particolare verso il dollaro), il governo cinese ha, dalla fine degli anni ’70, in diversi modi cercato di controllare il renminbi. Inizialmente operando una forte svalutazione rispetto al periodo dell’epoca di Mao, poi adottando un sistema di “peg” (cambio fisso) verso il dollaro e poi, arrivando ai giorni nostri, creando una banda di oscillazione giornaliera (attualmente del 2%) oltre la quale la banca può intervenire (a rialzo o a ribasso) per far rientrare le oscillazioni entro il limite massimo concesso. In questo scenario la banca centrale cinese si riserva di intervenire nel caso di eventuali crisi finanziarie o valutarie che rischiano di provocare eccessiva instabilità (è successo nel 2015), operazioni che non sono mai state un problema per la banca cinese, dato che il costante surplus della bilancia commerciale ha permesso alla Cina di accumulare ingenti riserve valutarie, soprattutto in dollari, con cui ha potuto operare tali, eventualmente necessarie, operazioni di difesa del cambio.
Eppure, nel corso degli anni i dirigenti cinesi si sono posti il problema di rafforzare il ruolo della propria valuta sul mercato internazionale, pur non rinunciando a nessuna delle opzioni su cui in questi anni hanno basato la loro politica finanziaria, in modo particolare il controllo del flusso di capitali. Il motivo per cui queste politiche hanno limitato l’utilizzo del renminbi all’estero è abbastanza intuitivo: è difficile che gli operatori esteri decidano di utilizzare per gli scambi (e soprattutto per gli investimenti) una valuta che difficilmente potrà essere utilizzata se non per commerciare con la Cina, dato che una volta entrato in possesso di renminbi un operatore non sa se e in quale misura potrà riutilizzarli o investirli, visto che il mercato dei capitali è limitato in ingresso e la possibilità di investire in obbligazioni o azioni cinesi (anche quelle quotate all’estero, definite off-shore) è ancora limitato per i non residenti. A questo si aggiunge ovviamente il fatto che il valore del renminbi stesso è affidato in parte alla politica monetaria della Banca centrale cinese (che in alcune fasi è in passato intervenuta pesantemente) più che al valore che il mercato potrebbe prezzare.
L’interesse delle autorità cinesi a definire un ruolo internazionale per il renminbi e che negli anni le ha via via portate a cercare di renderlo più attrattivo ha soprattutto a che fare con i costi che la scarsa diffusione del renminbi a livello internazionale porta con sé. Il fatto che il renminbi sia utilizzato ancora poco negli scambi internazionali implica la necessità di effettuare gli scambi con l’estero in altre valute e dover quindi sostenere elevati costi di transazione (per cambiare i renminbi in dollari) e tra le conseguenze ci sono quelle di ritrovarsi con ingenti riserve valutarie, con le quali tra l’altro si finanziano le proprie importazioni (che avvengono prevalentemente in dollari); riserve che però, in grosse quantità, espongono il paese al rischio di perdite a fronte di una svalutazione del dollaro, oltre che essere, nei fatti, una forma di finanziamento verso il paese che sempre più è diventato un antagonista geopolitico. Da non sottovalutare sono anche le difficoltà che si avranno nel momento in cui si dovesse avere bisogno di indebitarsi verso l’estero (per finanziarsi) e non lo si potrà fare nella propria valuta (dato che difficilmente i prestatori esteri si vorranno accollare il rischio di fare credito in renminbi che sono considerati una valuta debole e dal valore al termine del prestito incerto). Limitate sono anche le possibilità di prestare denaro a paesi esteri nella loro valuta (per compensare i crediti in valuta straniera), se non prestando a paesi in condizioni finanziarie disagiate e con elevate possibilità di non restituzione del prestito. Infine, nei momenti di crisi internazionale (come lo fu la fine del 2008 e i mesi successivi al marzo 2020), si rischia di essere eccessivamente esposti a una mancanza di dollari (come normalmente succede in queste fasi), valuta che è “stampata” dal principale concorrente egemonico.
Insomma, a partire almeno dal 2009, anno in cui la Cina raggiunse un picco di riserve estere in dollari e in cui per un periodo vennero a mancare i dollari nel sistema a seguito della crisi dei mutui subprime, il governo cinese si è posto il problema (senza pur mai ufficializzarlo in nessun documento) di accrescere la diffusione della sua valuta, cercando così di limitare la sua dipendenza dai dollari (al fine di non incorrere nei problemi appena esposti). Le mosse fatte sono andate in due precise direzioni: la prima è di accrescere l’uso della propria valuta negli scambi commerciali e il secondo di cercare di farla diventare una valuta di investimento internazionale.
Dal 2010 una delle prime mosse del governo cinese per cercare di incentivare l’utilizzo del renminbi come valuta di scambio fu quella di iniziare ad autorizzare alcune aziende ad effettuare scambi fuori dalla Cina in quella valuta (utilizzando prevalentemente il mercato di Hong Kong), ma i risultati non furono soddisfacenti, dato che l’utilizzo veniva limitato agli scambi commerciali, ma difficilmente gli operatori esteri detenevano i renminbi al di là dello stretto necessario per le attività di scambio, non avendo poi possibilità di investirli. La consapevolezza di questo limite indusse le autorità cinesi a lanciare una nuova valuta, il renminbi off-shore, che era pienamente flessibile e convertibile, ed utilizzabile esclusivamente all’esterno del paese.
L’utilizzo del renminbi off-shore (la sua sigla è CNY, per distinguerlo da quello on-shore, CNH) ha accresciuto la circolazione del renminbi e nel 2016 lo stesso è entrato a far parte delle valute di riserva del FMI. Nello stesso tempo sono stati aperti centri di scambio in renminbi off-shore anche in alcuni paesi occidentali come UK, Germania, Canada, al di là delle aree limitrofe alla Cina come Hong Kong, Taipei, Seul e Singapore, in cui avviene la gran parte degli scambi e sono presenti la maggior parte dei depositi. Le restrizioni del governo al movimento di capitali comunque rimangono e la liquidità del renminbi off-shore è limitata (circa lo 0,7% dell’offerta di moneta circolante in renminbi onshore, il 2% del suo PIL e meno del 10% delle riserve valutarie del paese). Rimangono ovviamente le restrizioni al rimpatrio di capitali da parte degli stranieri che disincentivano gli operatori ad utilizzarlo per investire in Cina, esso continua quindi ad essere utilizzato prevalentemente come mezzo di scambio.
Se la quota di renminbi off-shore utilizzati per gli scambi con la Cina è aumentata sino a raggiungere la quota del 20% (era del 2% circa nel 2010), rimane pure limitata la quota nel totale degli scambi internazionali (inferiore al 2%) nonostante la Cina abbia recentemente creato un suo sistema di pagamento che vuole essere alternativo al sistema SWIFT. Limitata è anche la quota di riserve estere detenute in renminbi (inferiore al 2% del totale, a fronte di un 60% in USD e un 20% in euro).
In conclusione, pur avendo fatto molti passi avanti nella sua diffusione, il renminbi pare orientato a poter diventare per ora solo una valuta regionale (il 90% degli scambi avvengono nelle aree limitrofe alla Cina). Lo strumento dell’utilizzo di una doppia valuta è visto del resto, nelle intenzioni del governo, come un passo intermedio e non definitivo per una maggiore diffusione della propria moneta. Nello stesso tempo, la consapevolezza delle riforme che sarebbero necessarie renderà comunque molto graduale il cammino verso la rinuncia al principale strumento che nei fatti ne rende difficoltosa una maggiore diffusione a livello internazionale: il controllo del movimento dei capitali.
Per un approfondimento su sistema finanziario della Cina potete fare riferimento a questo nostro report:
Una risposta a “IL CAMMINO INTERNAZIONALE DEL RENMINBI”