Nel 2020 il mercato obbligazionario cinese è ulteriormente cresciuto, secondo l’analisi di Bofit, che trovate qui https://www.bofit.fi/en/monitoring/weekly/2021/vw202130_2/ sino alla cifra di circa 18.000 miliardi di dollari ed è il secondo al mondo dopo quello USA (47.000 miliardi).
La crescita del mercato obbligazionario cinese è stata esponenziale, come si può notare dalla figura qui sotto ed è andata di pari passo con la crescita economica del paese e la progressiva liberalizzazione dei mercati finanziari.
Il mercato obbligazionario cinese presenta tuttavia alcune caratteristiche peculiari che possono essere comprese avendo in mente la struttura finanziaria del paese di cui abbiamo già parlato in maniera estesa in un nostro report recente.
Il fatto più rilevante è che secondo dati FMI, appena il 3,5% delle obbligazioni corporate e il 10% di quelle statali è in mano a entità estere e questo non è nulla di nuovo se si considera il limitato livello di libertà nella circolazione dei capitali in entrata e in uscita dalla Cina e il fatto che l’accesso ai mercati è per ora ancora soggetto a stretti controlli e concesso solo ad un numero limitato di istituzioni estere. Il resto del mercato obbligazionario è in mano ad operatori interni, prevalentemente banche, che detengono, è bene ricordarlo, più del 90% degli asset finanziari del paese. Tra queste, la fanno da padrone le principali cinque banche statali che da sole nel 2019 avevano prodotto il 51% dei profitti e detenevano il 36% di tutti gli asset del paese. Il risultato è un mercato obbligazionario molto ampio, ma poco liquido e difficilmente accessibile ai piccoli operatori.
Tra gli aspetti che non hanno ancora garantito alla Cina una totale fiducia degli investitori internazionali (almeno di quelli autorizzati ad investire) c’è, da un lato, il fatto che le agenzie di rating sono esclusivamente nazionali (non sono ammesse agenzie straniere) e dall’altro che la gran parte delle emissioni sono valorizzate come investment grade (nel 2019 il 97% del capitale emesso e l’84% delle emissioni), una proporzione molto maggiore rispetto a quella dei paesi maturi. A titolo di esempio, nel 2019 solo il 70% del capitale di debito corporate sottoposto a rating dell’agenzia Standard & Poor’s era Investment Grade. È necessario dire che il tasso di default è piuttosto basso (si veda figura qui sotto) e ha riguardato in prevalenza aziende private. La politica del governo per ciò che riguarda le aziende statali è stata solitamente quella del rifinanziamento anche a costo del mantenimento in vita di aziende improduttive e della crescita esponenziale di debito sostanzialmente NPL (non performing loans).
È pur vero che le cose stanno lentamente cambiando e, a seguito della crescita dei default avvenuta dell’ultima parte del 2020, anche di aziende con rating massimo e legate al settore statale, il governo aveva deciso di non intervenire con un salvataggio. Di pari passo (e come conseguenza di quanto avvenuto) sono state messe sotto accusa alcune agenzie di rating e si sta iniziando a ipotizzare un ingresso di agenzie straniere da mettere in concorrenza con quelle locali. Le mosse del governo cinese (in particolare la rinuncia a rifinanziare le aziende in default) potrebbero essere lette come in linea con le intenzioni di diminuire le situazioni di inefficienza aziendale con l’obiettivo di ottimizzare il sistema economico interno.