DOLLARO USA, UN DECLINO INEVITABILE?

Il fondo monetario internazionale ha aggiornato i dati sulla composizione ufficiale delle riserve valutarie (COFER) relative all’ultimo trimestre del 2020. Come mostrato in figura la componente delle riserve valutarie in dollari, ora al 59% (era al 60,5% nel precedente trimestre), è in calo da alcuni anni, ma comunque superiore ai minimi del 1991 (quando queste erano scese sotto il 50%).

Che cosa è la riserva valutaria di una banca centrale?

Essa è una delle componenti degli attivi della banca ed è costituita da depositi o titoli in valuta estera. L’accumulo di riserve valutarie può essere visto come una forma di garanzia che le banche detengono per poter finanziare, quando necessario, il deficit delle partite correnti, oppure per difendere il proprio cambio che eventualmente si apprezza o si deprezza troppo (rispettivamente accrescendole o riducendole).

Le riserve valutarie saranno influenzate dagli scambi con l’estero: se gli scambi con l’estero sono in attivo (ad esempio si esporta e si ricevono flussi di reddito dall’estero più di quanti ne escano e di quanto si importi) le riserve tenderanno a crescere, viceversa se il paese è in deficit le riserve tenderanno a diminuire.  È evidente quindi che ogni paese tenderà a detenere una proporzione tra valute estere funzione della diffusione di quelle valute negli scambi internazionali (e come abbiamo visto al momento la quota di dollari nelle riserve è del 59%).

Possiamo vedere la crescita o la diminuzione della valuta di riserva detenuta da un paese come il risultato di almeno due fattori: il primo sono i flussi di denaro che derivano dagli scambi commerciali o di reddito con l’estero il cui debito non viene finanziato dai privati e diventa quindi valuta di riserva, il secondo è la dimensione dell’economia di un paese.

Riguardo il primo fattore facciamo questo esempio: se un paese importa dei beni (ad esempio gli USA) dal Giappone, il denaro che l’azienda giapponese incasserà (in dollari) potrà essere depositato presso una banca USA, oppure potrà essere rimpatriato e cambiato in Yen. Nel primo caso il denaro diventerà un debito della banca USA verso un privato giapponese, nel secondo caso invece la banca centrale giapponese incasserà dollari (accrescendo le sue riserve valutarie) e pagherà all’esportatore giapponese yen. Mentre nel primo caso l’indebitamento USA è cresciuto sotto forma di un debito verso un privato (l’esportatore che ha lasciato il denaro presso una banca in USA), nel secondo invece il debito sarà cresciuto sotto la forma dell’aumento delle riserve valutarie (in dollari) della banca giapponese (che ugualmente depositerà i dollari in una banca USA, ma saranno denominati come riserve). Tendenzialmente, quindi, un paese esportatore potrà con più facilità veder crescere le sue riserve in valuta estera, e viceversa per un paese importatore.

Riguardo il secondo fattore, se consideriamo che la valuta di riserva è una sorta di “garanzia” per poter finanziare le proprie importazioni e per difendere il proprio cambio, va da sé che una crescita dell’economia del paese (e quindi delle sue importazioni) implicherà un prudenziale crescente accumulo di riserve. Lo stesso vale in qualche modo per l’intero pianeta: la crescita complessiva della sua economia implicherà una crescita (tendenziale) delle riserve complessive in valuta estera.

La posizione dominante del dollaro USA come principale valuta di riserva (il principale concorrente del dollaro è l’euro, la cui quota nelle riserve ufficiali è al momento limitata al 21%) e in generale come valuta egemone nel pianeta, ha fornito, dal dopoguerra ad oggi, indubbi vantaggi a questo paese.

L’elevata richiesta di dollari, per il commercio internazionale (otre il 45% è in dollari) e sotto forma di valuta di riserva, permette agli USA di avere costi di finanziamento relativamente bassi e poter emettere debito e stampare moneta senza preoccuparsi eccessivamente sia del deprezzamento della loro valuta sia dei costi e dell’ammontare del debito stesso (anche quello verso l’estero). Per dirla in maniera più semplice, ci sarà sempre qualcuno pronto a venire incontro all’offerta di valuta e di debito USA.

Il fatto di essere titolare della valuta più scambiata evita agli USA di doversi preoccupare di detenere quote consistenti di valuta di riserva dato che potrà commerciare in buona parte con la valuta che emette evitando quindi i costi di cambio e buona parte delle incertezze dovute al cambio stesso. Nel momento in cui una buona parte degli scambi internazionali avvengono in dollari e il dollaro è ovunque accettato, l’esigenza di detenere una quota di valuta estera di riserva per commerciare e a scopo prudenziale per non incorrere in quella che viene definita una “crisi della bilancia dei pagamenti” è molto più bassa che in altri paesi (basti dire che tutti gli scambi in materie prime avvengono ancora in questa valuta) e non è un caso che gli Usa di riserve valutarie ne detengano molto poche. A questo si aggiunge il vantaggio politico nel poter controllare, tramite il proprio sistema bancario, i finanziamenti in dollari (è la Federal Reserve che in ultima istanza stampa questa valuta e sono le banche americane quelle da cui possono arrivare i finanziamenti in dollari). Gli Usa possono quindi facilmente decidere di bloccare il flusso della principale valuta mondiale nel caso in cui ritengano di dover “punire” qualche paese a loro ostile (sul controllo dei finanziamenti si basa innanzitutto il successo delle politiche di embarghi e sanzioni). 

Ma qual è il futuro del dollaro USA e in quale misura è destinato a durare come valuta egemone?

Quanti sostengono inevitabile, in tempi più o meno brevi, un suo tramonto, lo fanno sulla base di due principali argomentazioni. La prima è il crescente debito USA (sia interno, sia verso l’estero) con cui negli ultimi 40 anni il paese ha alimentato la propria crescita economica. Il problema è che la prosecuzione di una simile politica rischia di far perdere agli asset (e alla valuta) americani, progressivamente valore, sino a non essere più riconosciuti come asset sicuro e “risk free”.

Il problema degli USA è però difficilmente risolvibile, e qui arriviamo alla seconda argomentazione, perché anche qualora gli USA smettessero di indebitarsi con l’estero, smetterebbero così di fornire la liquidità al pianeta per alimentare la crescita e le riserve valutarie di cui il sistema necessita e il ruolo del dollaro sarebbe progressivamente sostituito da qualche altra valuta. Se è vero quindi che il mondo necessita di valuta di riserva per finanziare i propri scambi commerciali, il destino del paese che la possiede è quello di accrescerla almeno in misura eguale alla crescita dell’economia mondiale. Il problema principale è che la crescita del PIL USA è decisamente inferiore a quella del PIL mondiale, quindi le alternative sono due: o gli USA sono destinati ad accrescere il proprio deficit con l’estero in maniera illimitata (sino a che diverrà insostenibile, insieme al debito complessivo) oppure il ruolo del dollaro tenderà progressivamente ad indebolirsi sino ad essere scalzato da altri.

Queste argomentazioni (che ciclicamente ritornano da almeno 20 anni, senza che nulla sino ad ora sia accaduto) si espongono a nostro parere ad alcune critiche fondate. Riguardo la prima (debito e deficit estero stanno diventando insostenibili), se è vero che il deficit USA rispetto all’estero è in costante crescita dagli anni ’80 ed è arrivato a creare una posizione finanziaria netta negativa per 14.000 miliardi di dollari (pari al 62% del suo PIL attuale), è anche vero che questa crescita è dal 2006 in costante rallentamento (rispetto al PIL). Anche pensando al debito pubblico, se è vero che esso è raddoppiato rispetto al 2008, arrivando nel corso del 2020 a superare il 130% rispetto al PIL (il rapporto è tuttavia destinato a calare nel corso del 2021), è anche vero che ci sono esempi di paesi che ne hanno uno quasi doppio e pur con crescita del PIL inferiore non danno per ora alcun tipo di preoccupazione di sostenibilità (stiamo parlando del Giappone).

Soprattutto, nonostante tale deficit estero e debito, non esistono al momento segnali di un calo della fiducia nella valuta americana e nel loro debito, e questo è apparso tanto più chiaro nei mesi successivo lo scoppio della pandemia nel 2020, in cui è salita alle stelle la richiesta di dollari (e di treasury) da parte dei mercati, tanto da costringere la Federal Reserve a riaprire (come già era stato durante la crisi dei mutui subprime) delle linee di credito dedicate (swap lines) che permettessero alle principali banche centrali di approvvigionarsi di dollari direttamente invece che passare dal mercato (in cui questi scarseggiavano).

Riguardo la seconda argomentazione (il crescente debito e deficit USA sono inevitabili per mantenere una posizione di valuta egemone e di riserva), pare altrettanto quantomeno dubbia la sua fondatezza. Non solo, infatti, non si evidenzia dal dopoguerra ad oggi alcuna correlazione degna di nota tra il deficit USA e la loro posizione di valuta di riserva, anzi, la diffusione del dollaro nei tempi in cui il paese era in surplus era ben maggiore di quella attuale, ma soprattutto, la quantità di liabilities in circolazione denominati in una certa valuta (ad esempio in dollari) non sono per forza debito del medesimo paese che emette quella valuta, e sta proprio qui la forza di una valuta egemone, nel fatto che anche paesi che non la emettono possono decidere di “creare debito” in quella medesima valuta, senza che le liabilities del paese che tale valuta emette (in questo caso gli USA) crescano. Non è un caso che il debito in circolazione nel mondo denominato in dollari sia ben superiore al debito effettivo degli USA. Secondo i dati forniti dalla BIS, su oltre 50.000 miliardi di titoli di debito denominati in dollari, poco più i 40.000 sono debito USA, quindi circa 10.000 non lo sono e a questo si vanno a sommare gli “almeno” 6000 miliardi di depositi bancari emessi in dollari fuori dagli USA. Insomma, la crescita della quantità di liabilities in dollari (disponibili per divenire valuta di riserva) non è solamente correlata con l’indebitamento USA e la loro quantità può crescere senza che cresca l’indebitamento del paese sovrano che emette dollari.

Come ultima argomentazione si può osservare che, non solo la Cina sia riuscita ad affermare una crescita (seppur modesta) del ruolo della sua valuta negli ultimi anni (passando dallo 0 al 2,5% nel paniere delle riserve ufficiali), nonostante un saldo con l’estero costantemente positivo, ma soprattutto, l’euro non pare aver patito la crescita del surplus commerciale europeo in termini di diffusione (timore che invece esisteva quando questa valuta fu creata).

Insomma, anche se gli USA dovessero porre fine alla crescita del loro debito e deficit (con scelte politiche che peraltro da alcuni anni stanno già tentando di fare, seppur con scarso successo per il momento), se è vero che questo sarebbe un cambio di paradigma economico (e finanziario) per il pianeta, non per forza significherebbe la fine del dominio della loro valuta.

Il successo del dollaro, del resto, non va ricercato solo andando ad analizzare il loro sistema economico e finanziario, ma anche estendendo la visione oltre: da un lato alla capacità del paese di mantenere una egemonia globale, che non si basa solo sulla forza economica e finanziaria, ma anche sull’egemonia politica e militare (le due cose si muovono in maniera parallela e si rafforzano a vicenda) e dall’altro dando uno sguardo a quelli che potrebbero essere i suoi competitor. La diffusione di una valuta è frutto non solo di un cambio di abitudini da parte degli operatori economici, ma anche della “fiducia” del sistema nella stabilità di chi la emette, fiducia che, per motivi opposti, né l’euro, né lo Yuan paiono ancor aver acquisito a sufficienza.

Per un maggiore approfondimento sul sistema finanziario USA e sul ruolo del dollaro nel sistema valutario, potete fare riferimento a questo nostro report.

https://www.dirittofuturo.org/wp-content/uploads/2021/04/Supplemento-al-Rapporto-OSFI-10-Marzo-2021.pdf

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