COS’E’ IL CONTROLLO DELLA CURVA DEI RENDIMENTI?

Ormai da qualche settimana si sente parlare con insistenza sulle principali fonti di informazione economica e finanziaria di curva dei rendimenti e dell’ipotesi che la banca centrale americana (quella giapponese lo fa da tempo) possa decidere di controllarla, soprattutto sulle durate più lunghe come quella decennale.  

Cosa significa? Prima di parlare dei rendimenti obbligazionari a dieci anni e di quello che sta succedendo in questi giorni, partiremo da lontano, iniziando dal tasso di riferimento di breve periodo che in USA è il cosiddetto Fed Funds rate.

L’obiettivo di Fed Funds rate viene stabilito ad ogni riunione periodica della Banca Centrale (FOMC: Federal Open Market Committee), esso è il tasso di interesse interbancario, cioè quello a cui le banche si prestano denaro tra loro.

Il mercato interbancario è la prima fonte di finanziamento di brevissimo periodo di qualsiasi operatore finanziario per due ragioni: la prima è che non tutti gli operatori hanno accesso al prestatore di ultima istanza (che è la banca centrale) dato che solo le banche vere e proprie possono farlo, mentre altri operatori (come i broker, gli hedge fund e i fondi immobiliari, i cosiddetti Reit) non hanno accesso a queste fonti di finanziamento. La seconda ragione è che il tasso di interesse interbancario è normalmente più basso di quello a cui la banca centrale presta denaro alle banche (il tasso di sconto) e diventa quindi la prima fonte di approvvigionamento di prestiti a breve periodo. Nelle intenzioni della banca centrale, infatti, il suo intervento tramite prestiti diretti alle banche deve essere solo di ultima istanza, ma in una situazione “normale” gli operatori privati devono fare da sé utilizzando il mercato interbancario il cui tasso di interesse dovrà quindi essere più basso di quello ufficiale di sconto. Il tasso interbancario è ovviamente sottoposto alle leggi di mercato e se cresce la domanda di prestiti crescerà anche il tasso di interesse. Però qualora il tasso di mercato salisse troppo (cioè sopra il valore del tasso di sconto), il compito della banca centrale è di fare in modo che i tassi interbancari ritornino a una situazione di normalità con interventi diretti sul mercato interbancario (con operazioni dette Repo, Repurchasing agreement) che consistono in prestiti di brevissimo periodo (anche inferiori a un giorno, “overnight”, o superiori, “term”) in cambio di titoli obbligazionari (che fungono quindi da collaterale di garanzia), ma con un accordo di “riacquisto”, da parte di colui che contrae il prestito, già definito in termini di prezzo e di tempo. Questo meccanismo fa quindi crescere la liquidità nel circuito e scendere i tassi di interesse. Nel caso in cui ci sia invece troppa liquidità (e i tassi interbancari scendessero eccessivamente), la banca centrale farà l’operazione opposta, i reverse Repo, ritirando liquidità dal mercato in modo da far risalire i tassi di interesse sopra il valore di un altro tasso che è definito dalla Banca centrale e cioè il tasso a cui questa remunera le riserve che le banche non prestano ai loro clienti e depositano presso la Federal Reserve stessa. Si vengono quindi a formare due riferimenti al di sopra e al di sotto dei quali la Banca Centrale, attraverso operazioni di mercato si impegnerà a non far oscillare i tassi interbancari: il tasso ufficiale di sconto (riferimento superiore) e il tasso a cui vengono remunerate le riserve (riferimento inferiore).

I tassi a breve periodo, di cui abbiamo appena parlato, sono considerati il riferimento più importante, e influenzano quelli a seguire con durate più lunghe. L’andamento dei tassi con durate più lunghe determina quella che è chiamata la curva dei tassi di rendimento che definisce, per ogni scadenza di prestito, il tasso che il mercato prezza attraverso lo scambio di titoli obbligazionari. Per definire tale curva di riferimento vengono utilizzati i rendimenti delle obbligazioni governative a diverse scadenze (1, 2, 5, 7, 10, 30 anni…). La curva dei tassi di rendimento ha normalmente una inclinazione positiva, il che significa che i tassi per i prestiti di durata maggiore saranno più elevati di quelli di breve.

La teoria che cerca di spiegare l’andamento della curva dei tassi di rendimento parte da due assunti. Il primo è che gli investitori sono in grado di sviluppare delle aspettative sull’andamento dei tassi futuri e quindi tenderanno a valutare il rendimento di una obbligazione della durata di X anni sulla base dei tassi di breve (annuali) che si attenderanno per gli anni successivi. Se ad esempio gli investitori si attendono dei tassi di interesse in crescita costante (dell’1% all’anno), a fronte di un tasso annuale del 5% nel primo anno, il tasso riconosciuto a un bond quinquennale potrebbe essere dato dalla seguente formula di calcolo del tasso medio sui cinque anni:

(5% + 6% + 7% + 8% + 9%) / 5= 7%

Questa considerazione non tiene però conto del fatto che investire su un’obbligazione a lungo termine è tendenzialmente meno appetibile, a parità di tasso di interesse annuo, che investire su una a breve termine, quindi deve esistere un “premio per il rischio”, in quanto le obbligazioni a lungo termine sono per definizione più rischiose; qui arriviamo dunque al secondo assunto, che spiega per quale motivo la curva dei tassi è normalmente inclinata verso l’altro: a parità di tasso di interesse annuo atteso, gli investitori preferiscono acquistare obbligazioni a breve durata e pur di averle si accontenteranno di un rendimento annuo inferiore. Tornando all’esempio di cui sopra, un bond quinquennale renderà normalmente un po’ di più del 7%, valore dato dalla media matematica dei rendimenti futuri attesi. Analogamente, se il tasso futuro atteso per i 5 anni successivi fosse costante al 5% (invece che crescente), la stessa obbligazione quinquennale renderebbe comunque di più del 5% (la media del tasso nei 5 anni successivi), perché bisognerebbe appunto remunerare il “premio per il rischio”.

Se si vuole leggere lo stesso fenomeno richiamando implicazioni macroeconomiche si può aggiungere che una maggiore ripidità della curva dei tassi (con aspettative di crescita dei tassi futuri molto elevate) è di solito connaturata con una crescita delle aspettative di crescita economica, e quindi di investimento da parte soprattutto delle aziende, investimenti che avvengono con finanziamenti a lungo termine che fanno crescere la curva dei tassi a lungo (ad esempio il decennale) molto di più rispetto a quelli a breve (normalmente utilizzati dai consumatori per il finanziamento dei propri acquisti).

Arrivando ai giorni nostri, nelle ultime settimane si è vista una costante crescita dei rendimenti di lungo periodo, in modo particolare l’attenzione è stata per il decennale sul titolo governativo USA, che è arrivato nella sera di giovedì 25 febbraio a toccare 1,6%. Un rendimento che non si vedeva dal periodo di febbraio 2020.

La crescita del decennale USA può essere letta in diversi modi: aspettative di ripresa economica e quindi di maggiori investimenti. Tali aspettative sono ulteriormente rafforzate dalla prospettiva di un piano di incentivi fiscali di 1,9 trilioni di dollari che riverseranno questo ammontare direttamente nelle tasche dei consumatori. Ma qui il richiamo automatico è subito all’altro elemento che può aver contribuito alla crescita dei tassi di lungo periodo, e cioè l’inflazione, di cui abbiamo già parlato qui (https://www.dirittofuturo.org/?p=802 ). I timori di inflazione (giusti o sbagliati che siano) sono già nell’aria da diverse settimane, perché se le iniezioni di liquidità delle banche centrali passano dal sistema bancario, che può decidere, come del resto sta facendo da tempo, di non prestare buona parte del denaro che si ritrova nelle proprie riserve, uno stimolo fiscale di tale portata che arriva direttamente ai consumatori rischia di riversarsi direttamente sui prezzi. Ci ritroviamo dunque nella seguente situazione: aspettative di inflazione in crescita, ma tassi di breve a zero e “sotto controllo” in quanto gestiti dalla banca centrale, cosa fanno dunque gli investitori anticipando una ripresa economica? Compreranno i tassi a scadenza più lunga che infatti stanno salendo. Quale potrebbe essere la contromossa della Fed? Ovviamente decidere di controllare anche questi, attuando la cosiddetta YCC (yield curve control). Il controllo della curva dei rendimenti, di cui la Fed parla in realtà da quasi un anno, è una politica monetaria attuata dalla banca centrale volta a controllare non solo i tassi a brevissimo come fa normalmente (ne abbiamo parlato sopra), ma anche le scadenze successive e mantenendo i tassi attorno al limite fissato con acquisti (o vendita) di titoli obbligazionari della durata che si vuole controllare. I casi che vengono citati sono quelli degli USA nel periodo post-bellico (politica durata quasi 10 anni e poi sospesa per l’eccesso di inflazione che aveva creato), quello australiano (che ha avviato dallo scorso anno una politica di controllo dei tassi a 3 anni), ma soprattutto quella del Giappone, che ha inaugurato tale politica di controllo nel 2016, operando sul tasso a 10 anni e mantenendolo vicino allo 0 (ma questa volta senza sortire alcuno degli effetti espansivi auspicati).

Ma per quale motivo la Fed dovrebbe avventurarsi in tale politica, rischiando una ulteriore crescita dell’inflazione a seguito del contenimento dei tassi di interesse che ne scaturirebbe e dell’ulteriore iniezione di liquidità?

Qui subentrano due possibili spiegazioni. La prima è quella che vede la Fed operare una tale politica per evitare che la ripresa economica non venga ostacolata dalla crescita dei tassi a dieci anni che sono anche quelli di cui più usufruiscono le imprese, la medesima ragione che ispirò (seppur in un contesto molto diverso e più drammatico) quanto fatto nel periodo post-bellico. La seconda interpretazione invece ha a che fare con quello che è successo negli ultimi dodici anni proprio a seguito delle politiche monetarie delle banche centrali e riguarda il debito da un lato (quello privato e corporate soprattutto) e il mercato azionario dall’altro.

Riguardo quest’ultimo, bisogna sempre ricordare che nell’analizzare il rapporto prezzi utili delle azioni (e quindi il loro rendimento) è opportuno confrontarli con i tassi di interesse in vigore sul mercato, perché l’investimento azionario è sempre concorrente di un investimento molto più sicuro che è proprio quello in obbligazioni in modo particolare statali. Un paio di settimane fa Nomura aveva evidenziato il fatto che un decennale con un tasso superiore al 1,5% avrebbe potuto mettere fine al rialzo del mercato azionario, dato che la differenza (spread) tra il rendimento delle azioni e quello delle obbligazioni decennali sarebbe stata troppo bassa per giustificare una prosecuzione del rialzo del mercato azionario stesso: secondo i calcoli di Nomura, che ha utilizzato per valutare il rendimento delle azioni il cosiddetto trailing price/earning cioè quello degli ultimi 12 mesi, lo spread di rendimento dell’indice S&P 500 con il decennale è al momento di poco superiore al 1,6%, che è quindi il premio per il rischio nell’investire in azioni su questo indice. Insomma, un investitore si chiede per quale motivo dovrebbe continuare a investire in azioni se il premio per il rischio diventa troppo basso dal momento che il rendimento del tasso di un titolo decennale (molto più sicuro di un investimento in azioni) inizia ad essere interessante. Non è dato sapere se le stime di Nomura siano affidabili (nei medesimi giorni JP Morgan aveva affermato che per il momento non c’era invece nulla di cui preoccuparsi), quello che è certo è che quando nella serata di giovedì 25 febbraio il tasso del titolo decennale ha toccato 1,6%, il mercato azionario ha repentinamente accelerato la sua discesa (già iniziata nei giorni precedenti).

Se l’impatto sul mercato azionario di una prosecuzione del rialzo dei tassi di lungo periodo pare, si spera, chiarito, è parimenti importante considerare il debito, la cui crescita nel 2020 è stata ulteriore. Abbiamo diverse volte parlato (https://www.dirittofuturo.org/wp-content/uploads/2020/07/Rapporto-OSFI-7-Giugno-2020.pdf ) degli effetti delle politiche monetarie delle banche centrali sul debito in questi anni, in modo particolare su quello più a rischio in capo alle aziende private, cosiddette zombie (che per diversi anni hanno accumulato profitti negativi o comunque inferiori al proprio tasso di finanziamento). Ebbene, se il mercato azionario verrebbe sostanzialmente affossato dalla risalita dei tassi, quello del debito, ad alcuni prestatori, rischierebbe di esplodere in mano, dato che il costo di finanziamento sarebbe per loro insostenibile. Ricordiamo che due settimane fa (prima che i tassi sul decennale si impennassero) il debito High Yield, quello contratto da aziende con basso rating, era arrivato ai minimi storici del 4%, molto inferiore alla situazione pre-pandemica.

Insomma, anche il mercato del debito, soprattutto High Yield, sentirebbe di sicuro l’influenza della crescita dei tassi più lunghi, quale quindi miglior ricetta allora se non quella di controllare anche loro con una nuova serie di acquisti mirati? In teoria tutto potrebbe funzionare, sino a che non si riaffaccerà l’inflazione. Al momento la crescita delle aspettative della stessa pare non essere ancora allarmante, è però necessario ricordare che raramente nella storia l’esplosione dell’inflazione è stata prevista con largo anticipo e i fattori che potrebbero “risvegliarla” iniziano ad accumularsi (non ultima l’impennata dei prezzi delle materie prime), se i prezzi dovessero iniziare a salire ben oltre i livelli attesi del 2%, la matassa da districare da parte della Fed diventerebbe davvero complicata e come sappiamo il primo strumento a disposizione di una banca centrale è di tipo “psicologico” ed ha a che fare col fatto che la banca stessa “dia l’impressione” di avere la situazione sotto controllo.

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