Il dato sull’inflazione USA di giovedì scorso (al 5%, superiore al 4,2% del mese precedente), oltre che più elevato delle previsioni degli analisti è stato anche il record di salita dei prezzi dal 2008. Rilevante anche il dato dell’inflazione core (depurata dei prezzi per beni alimentari ed energia) che dal 3% è passato al 3,8%.
I numeri in sé vanno ben al di là di quanto a inizio anno si potesse prevedere. È importante ricordare che il tasso di riferimento della Federal Reserve sull’inflazione è del 2%, sebbene questo sia ormai un dato considerato medio e per il quale non è stata specificata la durata di tale media, lasciando quindi alla Banca Centrale notevole libertà di movimento. Se al momento la Federal Reserve ha smentito ogni ipotesi di modifica in tempi rapidi delle sue politiche monetarie, sarà però fondamentale capire quanto durerà una tale inflazione, infatti se la progressiva riduzione delle iniezioni di liquidità (il cosiddetto tapering) è data per scontata, lo stesso non si può dire per la modifica della politica de tassi di interesse.
Come abbiamo scritto nel nostro ultimo report, https://www.dirittofuturo.org/wp-content/uploads/2021/04/Rapporto-OSFI-10-Marzo-2021.pdf
riteniamo che un tasso di inflazione costantemente superiore al 3% sino a fine anno potrebbe costringere la Fed ad intervenire prima del tempo, e cioè prima del 2024, al momento visto come l’anno in cui i tassi dovrebbero ricominciare a salire. Una data molto lontana e sino alla quale i mercati finanziari e gli operatori economici si attendono (e sperano) che i tassi continueranno ad essere a zero.
È pur vero che se un picco di inflazione era atteso (almeno dall’agosto 2020, quando la Fed modificò saggiamente la propria politica sull’inflazione portandola ad un target medio) i numeri che ci si trova di fronte potrebbero far pensare quanto meno a una forte preoccupazione, perché questi, non c’è dubbio, sono ben superiori a quanto immaginato sino a pochi mesi fa. Invece, analizzando tutti gli asset che potrebbero essere influenzati dall’inflazione stessa (e dalle sue attese), nulla è successo nell’ultimo mese, ed è indicativa la reazione che hanno avuto tali asset nella giornata di giovedì, di fronte a un dato che non si vedeva dal 2008.
Il cambio tra euro e dollaro: nella logica puramente economica l’inflazione dovrebbe essere un fattore di debolezza per una valuta ed un delta di inflazione del 3% (quello dell’eurozona è al momento al 2% a fronte del 5% in USA) dovrebbe essere in sé un fattore di forza della valuta con meno inflazione, quindi dell’euro. Nella realtà il cambio tra euro e dollaro (come quello di tutti i cambi valutari) è negli ultimi anni sempre stato mosso, nel breve periodo, da fattori affatto diversi, che si chiamano aspettative delle mosse delle banche centrali. Quindi, le reazioni dei cambi valutari hanno sempre visto un immediato rafforzamento della valuta a fronte di dati di inflazione molto alti. La spiegazione è che se sale l’inflazione i mercati si attendono un intervento delle banche centrali con un aumento dei tassi di interesse e di riduzione delle politiche di espansione monetaria. L’aumento dei tassi di interesse è un fattore di forza per la valuta e questo prevale, almeno nel breve periodo, sul dato di inflazione che tenderebbe a indebolirla. La risposta di giovedì del cambio tra euro e dollaro è stata di un rafforzamento del primo, movimento che peraltro ha confermato la forza dell’euro che dura ormai da alcuni mesi (nonostante i dati sull’inflazione USA in costante crescita rispetto a quelli europei). Il motivo di questa anomalia (rispetto a quanto normalmente accade nel mercato dei cambi come abbiamo appena detto) è molto semplice: per il momento il mercato non crede che l’inflazione salirà ancora per molto e soprattutto ritiene che i numeri attuali non saranno sufficienti a far cambiare idea alla Federal Reserve.
Questa interpretazione è confermata dall’analisi del mercato dei tassi di interesse: il rendimento del decennale USA, dai massimi di marzo (quando più forte si era sentito il timore per quello che sta succedendo ora), ha ricominciato a scendere e dal picco che aveva toccato (quasi 1,8%) si trova ora ad 1,45% e la discesa è continuata anche della giornata di giovedì, di fronte a un dato di inflazione senza precedenti in tempi recenti. Anche il mercato azionario, che più di tutti dovrebbe temere una eventuale stretta monetaria, non ha minimamente risentito del dato ed ha continuato a fare nuovi massimi, sia giovedì, sia il giorno successivo.
Pare chiaro che il pensiero comune al momento sia che l’inflazione si fermerà presto, sia sul fronte della crescita dei prezzi delle materie prime, sia dei prezzi al consumo, dopo la corsa agli acquisti e alle “cene fuori” dovute all’euforia post pandemica e alla liquidità iniettata direttamente alle famiglie dal piano Biden di 1,9 trilioni di dollari. Nello stesso tempo tutti sono convinti che la Federal Reserve nulla farà sul fronte tassi e, se l’inflazione dovesse fermarsi, potrà dire di aver vinto la sua scommessa. Perché di scommessa si tratta, dato che una inflazione che perdura ben oltre l’autunno a questi ritmi o, ancora peggio, che continua a crescere, è qualcosa che, lo abbiamo detto, la Fed non si può permettere e lo scenario di una banca centrale costretta a modificare le sue politiche a causa di una inflazione eccessiva, ne abbiamo scritto parecchio, non è propriamente ciò che in questo momento ci si deve auspicare.