Il tasso di disoccupazione Usa ad aprile vola al 14,7%, il valore più alto dalla crisi del ’29, che peraltro non tiene conto dei disoccupati che non cercano attivamente lavoro. È stato rilevato nella prima metà di aprile e, dopo la rilevazione, le domande di sussidio di disoccupazione hanno continuato a crescere. Oggi sono circa 40 milioni, 33 dall’inizio del lockdown, a cui si devono aggiungere i 7 milioni che hanno fatto richiesta di sussidio prima del 13 marzo.
Fortune valuta che il tasso di disoccupazione effettivo sia ormai del 24,9%, cioè un quarto dell’intera forza lavoro americana.
Un recente studio di UBS citato oggi da “Il sole 24 ore”, stima che 447 miliardi di euro di debiti delle imprese a rating elevato, a seguito della crisi in corso, rischino di essere declassati e di diventare “spazzatura”. Secondo le stime della stessa UBS in USA il rischio coinvolge una cifra simile di debito attualmente classificato come “Investment Grade” (e quindi relativamente sicuro): 475 miliardi di dollari.
Il punteggio assegnato dalle agenzie di rating ad un emittente (che sia governativo o privato) è una valutazione sul rischio che si incorre nell’acquistare i suoi titoli di debito (obbligazioni). Il rischio è ovviamente legato alle probabilità stimate che l’emittente fallisca (default) e non sia quindi in grado di restituire (in tutto o in parte) il denaro preso a prestito.
I punteggi vanno da AAA (massima affidabilità dell’emittente e quindi rischio minore) a C (l’emittente è prossimo al fallimento, rischio massimo). I giudizi delle agenzie di rating hanno una grossa influenza sul rendimento di un’obbligazione (e di converso sul costo che il governo o azienda in questione dovrà pagare sotto forma di interessi per poter prendere denaro in prestito da chi acquista le sue obbligazioni). Se il rating è elevato gli acquirenti considereranno bassi i rischi di quel titolo e si “accontenteranno” di un basso rendimento per acquistarli, viceversa se il rating è basso, essi richiederanno maggior rendimento per potersi assumere il rischio di prestare soldi all’emittente.
Esiste uno spartiacque molto importante nel punteggio assegnato dalle agenzie ed è quello tra obbligazioni Investment Grade (da investimento) e Obbligazioni High Yield (ad alto rendimento, a volte soprannominate anche Junk Bond, spazzatura). La minima valutazione per poter emettere delle obbligazioni definite Investment Grade (quindi relativamente sicure) è BBB (solitamente menzionata come tripla B). Al di sotto di questo punteggio i bond emessi sono classificati come Junk. L’importanza di questo spartiacque può essere apprezzata avendo in mente che alcuni dei cosiddetti “investitori istituzionali” (Fondi pensione e assicurazioni) spesso per statuto possono acquistare solo fondi classificati come “Investment grade”. La stessa regola vale per gli acquisti all’interno del programma di acquisti di obbligazioni da parte della BCE (denominato quantitative easing) da cui sono stati esclusi gli acquisti di obbligazioni Junk. Subire quindi un “downgrade” (quando cioè il proprio rating viene abbassato) tale che i bond emessi vengano classificati come Junk e quindi non più acquistabili dagli investitori istituzionali e dalle banche centrali, rischia di portare alcune aziende fortemente indebitate al fallimento (a seguito del fatto che il costo per potersi ulteriormente indebitare diventerebbe insostenibile).
Negli ultimi mesi le banche centrali sembrano essere consapevoli di questo problema. La BCE, già dal 2019, aveva incluso nel proprio piano di acquisto titoli anche la Grecia (contravvenendo dunque alla regola dato che i bond Greci hanno una valutazione media inferiore alla tripla B e non sarebbero acquistabili). È di questi giorni la notizia che le Federal Reserve abbia inserito nei suoi acquisti il sostegno (non diretto ma tramite titoli di gestione passiva, chiamati ETF, che li hanno in pancia) ad alcune di queste categorie di obbligazioni Junk.
Per quanto riguarda l’Unione Europea, a parte la Grecia, tutti gli altri paesi hanno un rating di investment Grade. Nel gradino più basso (quindi, la tripla B) a rischio classificazione Junk qualora ci fosse un declassamento troviamo Italia, Portogallo, Croazia, Ungheria, Romania e Bulgaria.
Quello che vedete è il grafico che illustra l’andamento delle nuove richieste di sussidi di disoccupazione negli Stati Uniti d’America. Il picco nell’ultima parte dell’immagine (che si riferisce alle ultime due settimane) è impressionante. Il grafico parte dagli anni ’60, ma nulla di simile troveremmo anche se andassimo a ritroso nella loro storia.
I cosiddetti “Initial jobless claims” vengono pubblicati il giovedì di ogni settimana e registrano il numero di persone che fanno richiesta di un nuovo sussidio di disoccupazione negli Stati Uniti d’America nella settimana trascorsa. Nella rilevazione precedente a questo picco le richieste erano state di 283.000 per poi, come si vede, esplodere a 3.283.000 (il 26 marzo) e 6.648.000 (il 2 aprile), per un totale di quasi 10 milioni di nuove richieste complessive.
Il mercato del lavoro statunitense presenta diverse differenze rispetto a quello dell’Europa continentale, sia per la maggior rapidità delle procedure di licenziamento, sia per l’assenza di ammortizzatori sociali che evitino il licenziamento quando le crisi produttive sono solo temporanee (cassa integrazione in Italia, kurzarbeit in Germania…).
Il governo degli Stati Uniti d’America ha stanziato la scorsa settimana circa 2000 miliardi di dollari di spese straordinarie per affrontare la crisi e, tra le altre cose, ha previsto l’incremento dei sussidi di disoccupazione. Gli Stati Uniti d’America sono al momento il paese più colpito dalla crisi del coronavirus e le prime stime parlano di un tasso di disoccupazione che potrebbe toccare la cifra del 30%.
La Federal Reserve USA e la BCE ricominciano ad acquistare in maniera massiva obbligazioni, siamo tornati ad uno scenario che non si vedeva dalla crisi dei mutui subprime del 2008. Capiamo perché.
Nella notte di domenica 15 marzo la Federal Reserve americana ha annunciato il lancio di un programma di acquisto di obbligazioni per un valore di 700 miliardi di dollari.
Il cosiddetto quantitative easing (già avviato in precedenza in USA dal 2008 al 2014 a seguito della crisi dei mutui subprime) consiste nell’acquisto da parte della banca centrale di obbligazioni e nella conseguente immissione di liquidità nel sistema finanziario. Verranno acquistati 500 miliardi di dollari in obbligazioni statali e 200 miliardi di MBS (mortgage backed secutities) cioè obbligazioni legate ai mutui immobiliari.
Tre giorni dopo, la BCE, che aveva già in corso un programma di acquisto di obbligazioni (governative e private) per circa 33 miliardi di euro al mese, si accoda con un forte incremento degli acquisti di altri 750 miliardi da qui a fine anno.
Quali sono le ragioni di questi interventi?
Le banche centrali cercano così di rispondere al rischio di recessione economica e al panico nel sistema finanziario che ha fatto seguito all’allarme pandemico diffusosi nel mondo per la diffusione del coronavirus.
L’immissione di nuova liquidità nel sistema (se la banca centrale acquista obbligazioni pubbliche e private, in corrispondenza “stamperà” nuovo denaro che, tramite il sistema bancario, entrerà in circolo) intende agevolare la disponibilità a prestare denaro delle banche, cercando di scongiurare quanto accaduto negli USA nel 2008, quando i fallimenti a catena di istituzioni finanziarie fecero scomparire la liquidità dal sistema per la diffidenza delle banche a prestare denaro.
Nello stesso tempo (attraverso l’acquisto di obbligazioni governative) le Banche centrali finanziano il debito pubblico che, a seguito di una situazione di crisi come quella a cui potremmo trovarci davanti, è destinato ulteriormente ad aumentare. Nel caso dell’Europa, il sostegno alle obbligazioni governative dei paesi membri intende anche proteggere il valore dei titoli di stato di alcuni paesi con una situazione di finanza pubblica più debole che rischiano di essere oggetto di forti vendite da panico da parte degli investitori (oltre che di attacchi speculativi).
Nella giornata di ieri lo spread sui titoli decennali italiani aveva toccato un picco di 320.
La Federal Reserve USA abbassa, per la seconda volta in meno di due settimane, i tassi di interesse, portando a zero il costo del denaro. Non accadeva dalla crisi dei mutui subprime del 2008.
Vi spieghiamo perché. Domenica 15 marzo la Federal Reserve americana ha abbassato i tassi di interesse di un punto %, da 1,25 allo 0,25%. La mossa fa seguito ad un ulteriore ribasso già avvenuto meno di due settimane fa di mezzo punto. Entrambe queste decisioni sono avvenute al di fuori delle occasioni “ufficiali” e quindi sono state prese in una situazione considerata di emergenza. Normalmente la revisione dei tassi di interesse avviene infatti in appuntamenti che si tengono a scadenze regolari. Una azione di questo tipo (con un ribasso complessivo dei tassi dell’1% nell’arco di 9 giorni), non si vedeva dai tempi della crisi finanziaria del 2008, ed è giustificata dalla situazione di allarme mondiale che segue la diffusione dell’epidemia di coronavirus che ha portato nelle ultime 3 settimane le borse mondiali a perdere tra il 30 e il 40% del loro valore.
Accanto a questo crescono le preoccupazioni di una recessione economica dovuta alla contrazione della domanda che potrebbe fare seguito all’emergenza mondiale.
Ma cosa sono i tassi di interesse e per quale motivo possono influenzare l’economia?
Le banche centrali definiscono periodicamente il tasso base a cui le banche commerciali possono prendere in prestito denaro dalla banca centrale stessa per prestarlo a loro volta ai clienti. Il tasso definito dalla banca centrale influenza quindi l’intero sistema finanziario ed economico di un paese. Più i tassi sono bassi, più le aziende e i privati sono agevolati a prendere denaro in prestito contribuendo così alla ripresa della domanda. Nello stesso tempo, abbassando i tassi di interesse, si cerca di evitare che aziende e società finanziarie fortemente indebitate possano entrare in crisi di insolvenza (default) a causa dell’impossibilità di onorare i debiti pregressi (le probabilità di questo evento aumentano nel momento in cui si avvia una recessione che fa calare i redditi per imprese e famiglie).
Dal 2009 al 2015 la Federal Reserve aveva mantenuto i tassi di interesse vicini allo zero (0,25%) per agevolare la ripresa economica dopo la crisi dei mutui subprime per riportarli, lentamente, sino al 2,5% (nel 2018).