I TIMORI DI INFLAZIONE E LA LEVA FINANZIARIA

Se si sfogliano le principali pagine di informazione economica non si può evitare di notare, da qualche mese a questa parte, un gran parlare di inflazione.

La scorsa settimana il governatore della Bundesbank Jens Weidmann ha affermato che si attende, per l’anno in corso, un rialzo dell’inflazione tedesca del 3%, ben oltre i limiti del target del 2% posto della BCE per l’eurozona. È opportuno ricordare che una tale inflazione in Germania, dagli anni ’90 ad oggi, la si è toccata solo nel 2008, prima della crisi dei mutui subprime. Da allora, nonostante le iniezioni di liquidità della banca centrale europea e i tassi di interesse a zero, nulla di tutto ciò è mai accaduto e l’inflazione in Germania ha superato il 2% solo per brevi periodi. Simile, ma con tassi di aumento dei prezzi ancora più bassi di quelli tedeschi, è stata l’evoluzione dell’inflazione nell’eurozona nel suo complesso, che si è spinta al di là del 2% solo per alcuni mesi nel 2018.

Se si guarda alla situazione attuale della crescita dei prezzi e la si confronta con quella precedente alla pandemia, del resto, poco ci sarebbe da preoccuparsi né si spiegherebbe l’interesse attorno a questo tema (riscontrabile peraltro anche consultando le tendenze nel principale motore di ricerca su internet). Ecco la situazione a confronto nei principali paesi tra il mese di febbraio 2020 e oggi (ultimo dato rilevato di gennaio):

Eurozona: 1,2% –> 0,9%

Germania: 1,7% –> 1%

Francia: 1,4% –> 0,6%

Italia: 0,3% –> 0,2%

Spagna: 0,7%–> 0,5%

La medesima analisi su paesi extra UE non offre risultati molto differenti, anzi, nel caso di Cina e Giappone si osserva una deflazione che non si vedeva, nel primo caso dal 2009 e nel secondo dal 2016.

USA: 2,3% –> 1,4%

Giappone: 0,7% –> -1,2%

Cina: 5,2% –> – 0,3%

Australia: 1,9% –> 0,9%

India: 6,5% –> 4%

Insomma, in nessuna parte del mondo l’inflazione pare essere tornata a livelli pari a quelli precedenti la crisi pandemica, che pur, al netto della Cina, erano comunque valori che facevano rilevare un rallentamento dal 2018.

Allargando lo sguardo, del resto, la tendenza inflazionistica mondiale appare piuttosto chiara ed è di forte declino, come si può vedere nella figura qui allegata che ne mostra l’evoluzione dal 1980 ad oggi. Sulle ragioni del calo tendenziale dell’inflazione si parla da tempo a tutti i livelli in ambito economico, qui ci possiamo quindi limitare a provare a citare alcune di quelle che possono aver contribuito a questo fenomeno: la crescita della globalizzazione e la conseguente competizione internazionale hanno messo sotto pressione i prezzi dei beni oltre che dei salari, il calo demografico tendenziale nei paesi con economie più forti porta ad una minore pressione sui prezzi, analogo effetto hanno la ridotta crescita economica (rispetto al periodo che va dagli anni ’60 agli anni ’80) nelle medesime economie mature (questo ragionamento, sulla crescita del PIL, esonera chiaramente, almeno sino ad ora, alcune economie emergenti dove, non a caso, l’inflazione, anche per la crescita demografica ancora presente, è ben maggiore).

A queste ragioni, che sono fondamentalmente condivise, come possibili “spinte contrarie” ad una salita dei prezzi, se ne aggiungono altre su cui invece il dibattito, anche sulla base della diversa scuola di pensiero economico di appartenenza, è più acceso. La critica di fondo che viene fatta alle politiche delle banche centrali dagli economisti di impostazione macroeconomica keynesiana riguarda l’efficacia stessa delle politiche monetarie per stimolare l’inflazione se non accompagnate da manovre di tipo fiscale che implichino una crescita degli investimenti pubblici e di redistribuzione del reddito. In modo particolare il tema della crescita delle diseguaglianze, un processo in atto almeno dai primi anni ’80 (lo stesso periodo da cui l’inflazione ha iniziato a calare), viene visto come una delle ragioni della scarsa crescita economica e della conseguente stagnazione dei prezzi che finisce per alimentare la bassa crescita stessa. Ne abbiamo già parlato qui:

https://www.dirittofuturo.org/wp-content/uploads/2020/07/Rapporto-OSFI-7-Giugno-2020.pdf

Per tornare ai giorni nostri allora, per quale motivo esiste una preoccupazione crescente per una possibile spinta inflazionistica? Le ragioni sono a nostro parere essenzialmente due.

La prima è che si teme che l’effetto del mix di ripresa economica post pandemica e iniezioni di liquidità delle banche centrali (che sono ulteriormente cresciute dal marzo 2020 e tutt’ora continuano) possa ingenerare tale aumento dei prezzi. È difficile dire quanto questo sia giustificato se si osservano i dati reali. Il quantitative easing è in corso in Europa (con una breve interruzione) dal 2015, in Giappone dal 2013, negli stessi paesi i tassi di interesse sono da parecchi anni a zero o negativi, ma gli obiettivi di inflazione non sono stati affatto centrati. Anche negli USA, l’obiettivo di inflazione della Federal Reserve, dal 2009 ad oggi, è stato superato solo per alcuni mesi nel 2018. In una conferenza stampa di qualche anno fa l’allora Presidente della stessa banca centrale USA Janet Yellen ebbe a dire che “l’andamento dell’inflazione sta diventando difficile da comprendere”.

La seconda ragione ha invece a che fare con quello che è successo in questi anni e che si chiama aumento della leva finanziaria e cioè crescita dell’ indebitamento delle istituzioni pubbliche, ma soprattutto di alcune di quelle private. Nel medesimo report che abbiamo citato sopra avevamo analizzato la crescita del debito corporate (cioè il debito delle aziende) che, soprattutto in USA, ha ingenerato una massa enorme di titoli finanziari a basso rating come i junk bond o i CLO (collateralized loan obligation che sono obbligazioni garantite da prestiti sottostanti spesso classificati come leveredged, e ad alto rischio). È utile notare come dal 2020 il tasso di crescita dello stesso debito definito junk sia aumentato ed abbia iniziato ad essere acquistato sia dalla Fed sia dalla BCE. I soggetti beneficiari di questo denaro sono spesso le cosiddette zombie companies, cioè le imprese i cui costi di finanziamento superano i profitti e che sopravvivono in buona parte grazie ai tassi bassi e alla generosità di prestiti favoriti dalla eccezionale iniezione di liquidità. Il fenomeno è più diffuso negli USA, ma anche l’Europa, seppur in proporzione minore, non ne è immune.

Il paradosso di questi tempi, che mostra la situazione difficile in cui le banche centrali si sono avventurate (ammesso che avessero una scelta), è che se da un lato le politiche monetarie auspicano e sono indirizzate (anche) ad una crescita dell’inflazione, nello stesso tempo non sarà facile decidere cosa fare se tali obiettivi dovessero mai essere raggiunti, ma soprattutto superati. Sarebbe allora il momento, per evitare che l’inflazione cresca troppo, di mettere fine alle politiche espansive e soprattutto di ricominciare ad alzare i tassi di interesse, manovra, quest’ultima, che rischierebbe di mettere fine alla vita di molte di quelle imprese che solo di bassi tassi di interesse (e degli acquisti delle banche centrali) stanno vivendo.

Per un ulteriore approfondimento sul tema dell’inflazione potete consultare questo nostro report.

https://www.dirittofuturo.org/wp-content/uploads/2020/10/Rapporto-OSFI-8-Settembre-2020.pdf

Clicca per votare questo articolo!
[Total: 3 Average: 5]

UNO SGUARDO AL SURPLUS DEL GIAPPONE: ESPORTAZIONI, MA ANCHE MOLTO ALTRO.

Un recente working paper del Fondo Monetario Internazionale che analizza il flusso di investimenti da e verso il Giappone ci permette di mettere in evidenza alcune peculiarità di un paese di cui dalle nostre parti, pur rimanendo la terza economia mondiale, non si legge mai molto.

https://www.imf.org/en/Publications/WP/Issues/2021/02/06/Japans-Foreign-Assets-and-Liabilities-Implications-for-the-External-Accounts-50058

Quando si pensa a paesi come la Germania, la Cina e, appunto, il Giappone, si pensa a paesi “esportatori”, la cui competitività sui mercati esteri (dovuta al costo dei prodotti e servizi, alla qualità tecnologica o a entrambi i fattori) permette loro più che di compensare il deficit che si crea a seguito della dipendenza dall’estero tramite le importazioni (che nel caso del Giappone non è irrilevante dato la sua scarsa disponibilità di materie prime). Così facendo ci si concentra però solo sulla prima componente dei current account, la bilancia commerciale, trascurando spesso l’effetto della seconda e cioè il saldo dei flussi di reddito con l’estero che derivano dagli investimenti, che è altrettanto importante per conoscere in quale misura alla fine di ogni anno il singolo paese si trova in attivo o in passivo con l’estero. È soprattutto sull’effetto dei redditi da investimento che si concentra questo paper, effetti che come vedremo, nel caso del Giappone, sono tutt’altro che marginali, per non dire decisivi per comprendere la sua posizione finanziaria con l’estero.  

Il Giappone, come anche la Germania e la Cina, risulta essere uno dei paesi che negli ultimi decenni ha riportato un costante surplus del proprio saldo delle partite correnti. Questa voce di contabilità nazionale rileva il saldo dei flussi di denaro in ingresso e in uscita da un paese a seguito dell’import ed export di beni e servizi (bilancia commerciale o trade balance) oltre che quelli di redditi da capitale (suddivisi tra investimenti di portafoglio e investimenti diretti all’estero) e ci fa capire in quale misura il paese si indebita o accumula surplus rispetto agli altri. Un deficit costante ed eccessivo può essere un problema, specie per paesi non in grado di reperire adeguati finanziamenti e con poche riserve in valuta estera. A scopo didattico ricordiamo che concorrono al saldo delle partite correnti anche il saldo dei redditi da lavoro (che insieme a quelli da capitale vanno a formare il cosiddetto primary income) e i trasferimenti unilaterali (per l’Unione europea il caso più classico sono i trasferimenti dell’Unione per cui alcuni paesi risulteranno in deficit e altri in surplus) detti anche secondary income.  Il contributo di queste due ultime voci (redditi da lavoro e trasferimenti unilaterali) è però abbastanza marginale e viene sostanzialmente trascurato in questa analisi sul caso giapponese, che verte invece sul contributo che al saldo delle partite correnti (qui current account, CA) danno i redditi che derivano dagli investimenti da e verso l’estero, che come vedremo sono invece tutt’altro che ininfluenti.

La cosa che balza all’occhio dalla figura che qui abbiamo riportato (che è solo uno dei dettagli che potrete trovare nel paper) è infatti come il contributo al saldo positivo del paese (qui analizzato dal 1996 al 2018) arriva proprio dal saldo dei flussi di reddito da investimento più che dalla differenza (pur mediamente positiva) tra esportazioni e importazioni. Per rendere più evidente questo aspetto si potrà notare dalla medesima figura come per ben 5 anni (dal 2011 al 2015) il Giappone abbia avuto un deficit della bilancia commerciale (ha importato più di quello che ha esportato), ma il suo bilancio finale di flusso di denaro (current account) è rimasto comunque in positivo, grazie proprio al contributo dei redditi da investimento.  

I redditi da investimento estero possono essere suddivisi in quelli che derivano dai FDI (foreign direct investment) e quelli che derivano da investimenti di portafoglio in asset finanziari (portfolio investment).

I primi provengono da investimenti nella costruzione all’estero di nuove unità produttive o acquisizione del controllo (anche parziale) di società estere e saranno in buona misura redditi derivanti dagli utili di queste stesse società. I secondi sono invece redditi che seguono investimenti in asset finanziari esteri come partecipazioni in capitale non di controllo di società (equity) o di titoli di debito esteri (debit). Analizzando la struttura della posizione netta del Giappone emergono alcuni ulteriori fatti interessanti che spiegano molto sull’economia (e il sistema finanziario) di questo paese e che lo distinguono da altri (come Cina e Germania) che pur hanno ugualmente un saldo costantemente positivo dei current account. Il risultato netto positivo dei flussi di reddito (surplus) è dovuto più che alla elevata quantità di investimenti fatti all’estero rispetto agli altri paesi, alla maggiore redditività dei suoi investimenti (probabilmente dovuta alla scelta geografica degli stessi), ma soprattutto alla bassissima quantità di investimenti fatti dagli stranieri in Giappone, che si tratti di investimenti reali (FDI) o investimenti di portafoglio. Il saldo è dunque positivo non tanto perché il Giappone riceve molti flussi di reddito dai suoi investimenti esteri, ma soprattutto perché ne escono pochi dal paese, dato che gli investimenti esteri sono bassi. Se si guarda ad esempio alla quantità di stock di investimenti diretti (FDI) fatti in Giappone dagli altri paesi sino al 2019, essi erano pari a circa il 4% del suo PIL. Tanto per fare un confronto, in Italia sono pari al 28% del PIL, in Germania al 45%, in USA al 44%, la media mondiale è del 43% (questi sono dati OECD che potete trovare qui https://data.oecd.org/fdi/fdi-stocks.htm).  Alle stesse conclusioni si arriva se si analizza il saldo dei redditi da investimento estero di portafoglio. Gli investimenti del Giappone all’estero non sono superiori rispetto a quelli degli altri paesi se confrontati con il suo PIL, ma il saldo tra i redditi in entrata e in uscita rimane molto elevato, anche qui, grazie al fatto che gli investimenti in asset finanziari giapponesi sono molto bassi da parte degli stranieri.

Quindi, per riassumere, il Giappone investe molto all’estero e compra parecchi asset finanziari in valuta (soprattutto in dollari, di cui è il principale detentore), ma non in misura così elevata rispetto a quanto fanno altri paesi maturi (anzi in misura a conti fatti inferiore se si considera la dimensione della sua economia), ma sono pochi gli stranieri che investono in asset Giapponesi, sia quelli reali (FDI) acquisendo aziende giapponesi o parti di esse o costruendo lì unità produttive, sia quelli finanziari (portfolio investment) comprando asset denominati in yen, che siano azioni o titoli di debito.

Le ragioni di questo sono legate, nel caso degli investimenti diretti, alla complessità e onerosità che talvolta esiste nel fare business in Giappone per uno straniero, ma anche, scrivono gli autori del paper, alle caratteristiche della corporate governance delle aziende in Giappone che rendono più difficoltoso rispetto ad altri paesi esercitare un controllo anche parziale su una società da parte di “outsider” di minoranza esteri. La crescita degli investimenti diretti esteri in ingresso (FDI inflows) era uno dei punti in agenda della cosiddetta Abenomics, la politica di rilancio del paese inaugurata dal primo ministro Shinzo Abe nel 2013, che pur (su questo fronte) non ha ancora dato risultati apprezzabili.

Nel caso degli investimenti di portafoglio da parte estera (e quindi della bassa quantità di redditi di questo tipo in uscita dal paese) la ragione è egualmente duplice e deriva soprattutto dalla elevata disponibilità di compratori locali istituzionali (come le banche, le società di assicurazione, i  fondi pensione e certamente, negli ultimi anni, anche la banca centrale) che ne assorbono l’offerta, oltre che dal basso rendimento dei titoli di debito giapponesi che non incentivano l’investimento estero (differenza questa che si è pur ridotta negli ultimi anni e soprattutto nel 2020 con l’azzeramento di quasi tutti i tassi di interesse dei paesi maturi).  Quest’ultimo punto (avere una bassa quantità di debito posseduto dall’estero) è di importanza fondamentale per comprendere il motivo per cui il debito pubblico del paese, che ammonta al 230% del suo PIL, è considerato ancora sostenibile dalle principali agenzie di rating e dagli investitori esteri che decidono di acquistarlo. Solo il 10% del debito pubblico giapponese è detenuto all’estero, per fare un confronto con altri paesi, in USA la quota supera il 30%, in UK e Italia è circa il 28%. L’esposizione debitoria con l’estero (soprattutto se in valuta straniera) è considerato un fattore di instabilità finanziaria, specie se la quantità di debito è elevata. Fattore di instabilità che, almeno per il momento, il Giappone è riuscito ad evitare.

Clicca per votare questo articolo!
[Total: 5 Average: 5]

LA CINA DIVENTA LA PRIMA META DI INVESTIMENTO ESTERO

Nel 2020 la crisi pandemica, come prevedibile, ha ridotto drasticamente gli investimenti all’estero che sono scesi, rispetto al 2019, del 42% (un calo superiore del 30% a quello che si era verificato nel 2009 a seguito della crisi dei mutui subprime). I dati sono stati pubblicati in un report dell’ UNCTAD (United Nations Conference on Trade and Development) disponibile qui https://unctad.org/system/files/official-document/diaeiainf2021d1_en.pdf.

I Foreign Direct Investment (FDI), vale a dire gli investimenti diretti all’estero, sono gli investimenti fatti in un paese estero che comportano la costruzione di un nuovo impianto produttivo o l’acquisizione parziale o totale (almeno il 10% della quota di controllo) di una società estera. Sono quindi da distinguere dagli investimenti di portafoglio che sono invece investimenti in asset finanziari in un paese estero (come azioni e obbligazioni).

La riduzione del flusso di investimenti in ingresso è stata molto forte per le economie sviluppate (-69%) e meno sensibile per quelle in via di sviluppo (-12%). Pesante la contrazione dell’Europa 27 (-71%) che è addirittura superiore al 100% se si considera l’intero continente (quindi con una diminuzione dello stock) e degli USA (-49%). Gli unici paesi tra quelli analizzati che hanno avuto una crescita del flusso in entrata sono l’India (+13%) e la Cina (+4%) che supera quindi gli Usa come il principale paese meta di investimenti esteri (era al secondo posto nell’anno precedente).

La Cina si è aperta agli investimenti esteri alla fine degli anni ’70 e questi hanno costituito una delle principali spinte alla sua industrializzazione e sviluppo tecnologico. È importante evidenziare come in questo paese gli investimenti esteri, nonostante le progressive aperture negli anni, abbiano ancora limitazioni, spesso a seconda dei settori merceologici. In alcuni di essi gli investimenti esteri non sono possibili, oppure limitati a quote di minoranza che escludono il controllo delle società.

E’ utile ricordare come nel mese di dicembre sia stato firmato un accordo tra la stessa Cina e l’Unione Europea, il Comprehensive Agreement on Investment (CAI) che, una volta approvato dal parlamento europeo, stabilirà regole di reciprocità tra i due paesi che dovrebbero ulteriormente favorire (a parità di condizioni) gli investimenti Europei nel paese ed estendere la possibilità di investire in settori non prima accessibili.

Un approfondimento del sistema economico e finanziario di questo paese è disponibile nel nostro ultimo report scaricabile a questo link https://www.dirittofuturo.org/wp-content/uploads/2021/01/OSFI_Scenario_di_finanza_internazionale_n_9_dicembre_2020.pdf 

Clicca per votare questo articolo!
[Total: 3 Average: 5]

GAMESTOP E IL SOGNO DI ESSERE ROBIN HOOD COMPRANDO OPZIONI

Nei giorni scorsi abbiamo sentito parlare ovunque del fenomeno GameStop, la vicenda è arrivata anche sulla scrivania del nuovo Segretario al Tesoro Usa Janet Yellen (ex Presidente delle Federal Reserve), che ha chiesto di “valutare eventuali azioni” di cui al momento, comunque, non si vede traccia.

Detto in breve, le azioni di una società con un business in forte crisi (vendita di videogiochi tramite negozi su strada) sono passate in pochi giorni dal valore di circa 20 dollari a quasi 500, per poi scendere con maggiore rapidità sino a circa 50. Il fenomeno del “pump and dump” non è sicuramente cose nuova. Far salire un titolo azionario in modo da innescare una euforia collettiva, seppur immotivata, e poi rivenderlo molto vicino ai massimi a discapito di quanti sono entrati nella parte finale della corsa, sono cose che sono sempre successe. Anche chi si è limitato negli anni a seguire la borsa italiana ricorderà sicuramente nei primi anni 2000 fenomeni come questo.

Ora però gli anni della bolla di Internet sono abbastanza lontani e buona parte di quanti oggi si stanno gettando a capofitto in questa ed altre speculazioni non li ha certo vissuti.

Nel caso di GameStop è stata sicuramente diversa la dinamica attraverso cui è stato veicolato il messaggio e il titolo coinvolto non era propriamente un titolo “sottile”. Ai tempi della bolla di Internet non esistevano i social network (ma già esisteva il trading online) e si utilizzavano il passaparola e le catene via mail, o più semplicemente si era catturati dall’effetto, umanamente comprensibile, della paura di perdere il treno in corsa: quando si vede un titolo che sale viene spontaneo affrettarsi a comprarlo per paura di perdere l’occasione della vita. Il trading, si sa, è favorito da istinti abbastanza primordiali, a cui talvolta si aggiunge purtroppo la tendenza ludopatica di molti pseudo operatori. Nel caso di GameStop il principale veicolo del messaggio di gettarsi a capofitto sul titolo, pare sia avvenuto su un social network usato soprattutto in Usa: Reddit. La logica è stata quella di cercare di far salire il titolo che i grossi investitori (in buona parte hedge funds) stavano invece cercando di far scendere (GameStop risultava infatti uno dei titoli più venduti allo scoperto, su cui quindi esistevano grosse “scommesse” al ribasso). Anche lo strumento utilizzato è stato diverso dagli anni della bolla di Internet, sono state infatti utilizzate soprattutto le opzioni: strumenti derivati che permettono rischiando poco denaro (al massimo il valore stesso della opzione) di “scommettere” sulla salita di un titolo sottostante con attese di guadagno (se le cose vanno bene) molto elevate, dato che permettono di investire sul medesimo titolo a “leva”, moltiplicando quindi il valore dell’investimento (e del potenziale guadagno). L’acquisto di tali opzioni ha innestato un massiccio acquisto dello stesso titolo sottostante (GameStop appunto) che ha costretto alcuni grossi investitori che avevano scommesso a ribasso (con posizioni cosiddette short) ad uscire dall’operazione, il che non si può attuare in altro modo che comprando il titolo stesso (che prima si era venduto allo scoperto, cioè senza averlo, ma chiedendolo in prestito). Tali chiusure di posizione massive (che sono appunto altri acquisti) di chi era “short” sul titolo (il fenomeno è noto come short squeeze), hanno innescato quindi una ulteriore salita del titolo che è arrivato a toccare quasi 500 dollari. Quello che è successo dopo è noto (oggi vale circa 50).

La cosa che più ci pare interessante non è però scendere ulteriormente nei dettagli tecnici di questa operazione, quanto il fatto che pare ormai chiaro che, a distanza di poco più di 20 anni, si stiano vivendo logiche molto simili a quelle degli anni della bolla di Internet (1999 – inizio 2000) che poi finirono male per molti.

Nel mese di maggio del 2020 (2 mesi dopo lo scoppio della pandemia) è stata svolta un’indagine da parte della società Envestnet Yodlee sui conti correnti degli americani che hanno percepito indennità statali e sussidi sotto diverse forme a seguito della crisi di coronavirus. Per alcune fasce di reddito (tra i 35.000 e i 75.000 dollari all’anno) che avevano ricevuto contributi contributi statali a seguito della pandemia, la voce “acquisto di titoli” è stata preceduta solo da quella “risparmi” e “ritiro contante per spese correnti”. Altrettanto interessante è notare come nell’anno 2020 negli stessi Usa sia stato rilevato un aumento senza precedenti dell’apertura di conti online di trading (oltre 10 milioni). Il fenomeno riguarda in buona parte società di brokeraggio che permettono di operare con commissioni azzerate, una per tutti è la piattaforma della società Robinhood Markets Inc, più semplicemente nota come Robinhood, che nel solo mese di dicembre dello scorso anno ha registrato 500.000 download della sua app. Il nome della piattaforma è significativo per immaginare quelle che vorrebbero essere le sue intenzioni, permettendo ai piccoli risparmiatori di accedere con facilità al mercato e (il ragionamento è nostro ma il nome ci ha aiutato) arricchirsi anche loro, magari a danno dei più ricchi (del resto la logica, se vogliamo pseudo ideologica, dell’operazione GameStop non era altro che questa). La piattaforma permette un facile accesso ai mercati non solo per le commissioni azzerate, ma anche perché è possibile operare su strumenti che replicano l’andamento non solo delle azioni ma anche di frazioni di esse: alcuni titoli hanno raggiunto prezzi relativamente elevati, le azioni Amazon ad esempio valgono più di 3000 dollari, cifra che alcuni probabilmente non si potrebbero permettere, ed ecco quindi l’utilità del frazionamento, così da permettere anche ai meno abbienti di partecipare al  gioco.

I cicli di borsa sono più o meno tutti uguali, anche se quello in cui ci troviamo è stato il più lungo di sempre in termini di salita (partiamo di fatto dal 2009) e passano da una fase di accumulazione, che riguarda prevalentemente i grandi operatori per poi terminare in una di euforia irrazionale in cui vengono coinvolti anche quelli piccoli. I mercati azionari salgono non solo perché gli operatori sono disposti a comprare azioni a prezzi sempre più elevati, ma anche perché entrano in continuazione nuovi operatori sul mercato che forniscono nuova liquidità. Uno studio di DB del 2019 che trovate qui a pag. 10 https://www.dirittofuturo.org/wp-content/uploads/2020/07/Rapporto-OSFI-7-Giugno-2020.pdf mostrò che il rialzo azionario era stato guidato sino a quel momento soprattutto dai cosiddetti buyback della aziende quotate, che consistono in riacquisti di azioni proprie che permettono di aumentare la redditività per gli azionisti aumentando i dividendi incassati e sostenere il valore del titolo, impiegando così la propria liquidità per ricomprarsi le proprie azioni piuttosto che facendo ad esempio nuovi investimenti. Il fenomeno della salita del mercato azionario più lunga della storia è sicuramente stato favorito dalla enorme immissione di liquidità da parte delle banche centrali e dai tassi di interesse azzerati ormai da parecchio tempo (anche in Usa dal marzo 2020). Sarebbe interessante un aggiornamento del medesimo studio fatto ora, perché se nel 2020 i buyback sono lentamente diminuiti dopo la pandemia, l’impennata delle borse nello stesso anno è continuata ancora più forte di prima, e quindi molto probabilmente questa volta anche per merito dei piccoli operatori che, tramite piattaforme come  Robinhood, sperano di poter con facilità prendere i soldi ai più ricchi. Quello che succederà quando questo apporto di liquidità da parte di quello che poco elegantemente viene chiamato parco buoi verrà a mancare a causa dello sconforto per le rapide perdite (come quelle in cui sono accorsi alcuni degli ultimi che si sono agganciati al treno chiamato GameStop) non è dato saperlo, considerando che la Federal Reserve è riuscita già due volte (alla fine del 2018 e nel marzo del 2020) a salvare i mercati dalla capitolazione. È anche vero che tutti gli strumenti a sua disposizione paiono ormai essere stati spesi e ci si chiede dopo il quantitative easing illimitato e i tassi ormai a zero che cos’altro ci si potrà mai inventare per continuare ad alimentare il sogno di una crescita illimitata dei mercati azionari e per qualcuno di fare quello che faceva Robinhood.   

Clicca per votare questo articolo!
[Total: 4 Average: 5]

RICERCA DELLA LONDON SCHOOL OF ECONOMICS: RIDURRE LE TASSE AI PIU’ ABBIENTI NON PRODUCE EFFETTI MACROECONOMICI POSITIVI

Una recente ricerca empirica del’International Inequalities Institute (III) della London School of Economics and Political Science che trovate a questo link http://eprints.lse.ac.uk/107919/1/Hope_economic_consequences_of_major_tax_cuts_published.pdf 

ha analizzato i dati relativi ad un periodo di 50 anni (dal 1965 al 2015) relativi a 18 paesi OECD, cercando correlazioni causali tra i tagli alle tasse avvenuti nel corso degli anni sull’1% della popolazione con redditi più elevati e altre variabili di tipo economico come le diseguaglianze di reddito, la crescita del reddito complessivo e la disoccupazione.

Quanti sostengono l’utilità di simili interventi di riduzione fiscale anche per le fasce a reddito molto elevato, ne sostengono anche l’utilità per la collettività in termini di maggiori investimenti, crescita economica e quindi occupazione.

Se i risultati della ricerca indicano da un lato una crescita delle diseguaglianze (con un aumento del reddito medio dell’1% di popolazione con reddito più elevato, sia nel breve sia nel lungo periodo) d’altro canto non sono stati evidenziati nei medesimi periodi benefici derivanti da tali interventi fiscali, né sul fronte della disoccupazione né su quello del PIL pro-capite dei rispettivi paesi.

Clicca per votare questo articolo!
[Total: 3 Average: 5]

CANCELLARE IL DEBITO?

È di questi giorni il dibattito sulla proposta di alcuni economisti francesi per la cancellazione di una parte del debito dei paesi dell’Eurozona.

Di cosa stiamo parlando?

La proposta non riguarda una cancellazione generalizzata del debito pubblico dei paesi membri, bensì solo della quota di questo detenuta dalla Banca Centrale Europea. La medesima, secondo la loro proposta, dovrebbe essere reinvestita per il rilancio dell’economia, in particolare quella green. Si tratterebbe questo di un intervento “una tantum” la cui necessità viene paragonata a quella che può scaturire da una situazione post-bellica del tutto eccezionale.

Attualmente la Banca Centrale Europea detiene circa il 25% del debito dell’eurozona (e il 20% di quello italiano). La quota detenuta dalla banca centrale si è accresciuta negli anni (dal 2015) a seguito delle manovre di quantitative easing di acquisto di debito pubblico e privato, ulteriormente rafforzate a seguito della pandemia con il piano cosiddetto Pepp (Pandemic emergency purchase programme). Come evidenziato dal grafico allegato, il fenomeno non è in realtà isolato dato che riguarda diversi paesi, inclusi il Giappone (che ne è stato in qualche modo il precursore) e gli Usa, le cui banche centrali detengono ora, rispettivamente, quasi il 45% e il 20% del totale del debito pubblico nazionale, con quote peraltro in aumento, dato che le manovre di acquisto di titoli sono tutt’ora in corso e nel caso di Usa e Giappone non è stato indicato alcun termine previsto.

Il debito posseduto dalle medesime banche centrali è considerato più stabile e sicuro dato che è posseduto dalla medesima autorità nazionale e non è esposto a vendite massive in caso di tensioni nei mercati come può essere per il debito posseduto dagli investitori privati, le famiglie e in particolare quello detenuto all’estero. Le Banche centrali hanno utilizzato il riacquisto di titoli con due principali obiettivi, il primo è stato quello di finanziare la spesa pubblica degli stati (soprattutto in occasione delle ultime due recessioni economiche, quella che ha fatto seguito alla crisi dei mutui subprime del 2008 e quella attuale a seguito della pandemia), il secondo quello di cercare di far crescere l’inflazione (e questo è stato il caso soprattutto di Europa e Giappone). C’è da dire che una parte di questo debito rientra contabilmente allo stato, dato che i titoli posseduti dalle banche centrali producono cedole e queste vengono poi “girate” al medesimo tesoro che ha emesso i titoli che le banche centrali hanno comprato.

Il caso della Banca Centrale Europea è particolare dato che essa agisce per conto di diverse entità sovrane che sono i paesi membri dell’eurozona, per questo è utile dire che i guadagni che derivano dal possesso di titoli di debito (tramite cedole) vengono poi “girati” ai singoli paesi membri dell’eurozona che partecipano (tramite le loro banche centrali) alla BCE stessa.

È importante sottolineare che nel caso dell’Eurozona ai due obiettivi suddetti del QE (finanziare gli stati e cercare di spingere l’inflazione) se ne aggiunge un terzo non meno importante che è stato quello di cercare di tenere bassi i tassi di interesse dei paesi membri e in modo particolare di quelli con un debito elevato e quindi più rischioso (come Italia, Spagna e Grecia). Se quest’ultimo obiettivo, difficile negarlo, è stato pienamente raggiunto (quasi tutti i paesi dell’eurozona possono prendere in prestito denaro a tassi addirittura negativi, quello sul decennale italiano è oggi allo 0,5%), non altrettanto di successo è stato il tentativo di far salire l’inflazione all’obiettivo del 2%, quota che non è stata raggiunta nemmeno nel 2018, al massimo dell’espansione economica dell’eurozona. L’inflazione troppo bassa (o addirittura la deflazione cioè il calo dei prezzi) è considerata non positiva per l’economia, in primis perché non incentiva i consumi e quindi la crescita economica (se i consumatori anticipano nel futuro prezzi stabili o in diminuzione tendono più facilmente a rimandare gli acquisti, cosa che farebbero meno volentieri se i prezzi venissero visti in salita) oltre che (nel caso di deflazione) gli investimenti, facendo aumentare il valore dei debiti in capo ai privati e allo stato.

Arriviamo dunque alla proposta del taglio del debito degli stati membri in mano alla BCE. Il primo obiettivo nelle intenzioni di chi lo propone è proprio quello di essere un ulteriore stimolo all’economia e all’inflazione, ma anche di liberare una parte di fardello di debito in capo agli stati (soprattutto quelli più indebitati). La crisi covid ha accresciuto il debito di tutti i paesi (nel caso dell’Italia siamo passati dal 132% a circa il 160% rispetto al PIL nell’arco di un anno) e questo potrebbe essere un problema nel momento in cui finirà l’emergenza e venissero ripristinati i vincoli di bilancio che esistevano sino all’inizio del 2020, reintroducendo (in forma uguale o simile a ciò che era prima) il cosiddetto “patto di stabilità” con il quale questi paesi si troverebbero di nuovo in difficoltà nel cercare di spingere la loro economia. Quindi l’intenzione è cancellare questo debito con un’operazione tecnicamente semplice da parte della banca centrale una volta che i titoli posseduti andranno a scadenza, non chiedendo la restituzione del denaro che verrà speso dagli stessi paesi in politiche di investimento sostenibili.

Rispetto alla proposta, gli argomenti dei sostenitori di questa manovra sono stati già in parte elencati e a loro favore c’è senza dubbio in questo momento la quasi totale assenza di inflazione (che in tutto il pianeta è in costante discesa dagli anni ’90) in modo particolare nella zona euro.  

Tra chi invece è contrario a queste misure (tra cui Christine Lagarde e lo stesso Fabio Panetta, membro per l’Italia del board della BCE) vengono evidenziate non solo le difficoltà legali nel compiere questa operazione (anche se non esiste nei fatti alcuna regola che la impedisce), ma soprattutto gli effetti che potrebbe avere. Da un lato verso i mercati finanziari (che non sono altro che coloro che prestano denaro), che potrebbero interpretare la mossa come una evidente debolezza dell’Eurozona e richiedere in futuro maggiori tassi di interesse per acquistare il suo debito (in fondo questi timori non sono molto diversi da quelli di coloro che in Italia sono tutt’ora contrari al MES in quanto temono che questo possa essere interpretato come un segnale di difficoltà per l’Italia e quindi peggiorare il suo rating). Dall’altro una simile mossa (anche se nelle intenzioni dei loro promotori non viene dichiarata così) potrebbe creare un precedente che nei fatti darebbe il via libera ad una spesa illimitata nella speranza di un futuro, ed ulteriore, taglio.

In fondo tutto non è molto diverso dalla dialettica in vigore sino all’inizio dello scorso anno (e ritornata in occasione dell’accordo sul Recovery Fund) tra i paesi rigoristi e coloro che sono più favorevoli ad una espansione del debito. Una dialettica di cui, sino a che l’Unione europea non farà un passo avanti (ammesso che voglia farlo) verso una convergenza delle politiche fiscali, sarà difficile liberarsi.

Clicca per votare questo articolo!
[Total: 4 Average: 5]

LA CRESCITA DEL DEBITO MONDIALE NON CONOSCE SOSTA

L’Institute for international finance (IIF) ha rilasciato una ricerca sull’andamento del debito mondiale a seguito della pandemia di covid 19.

La crescita del debito mondiale nell’anno in corso ha subito un’impennata di 15 trilioni di dollari superando, al termine del terzo trimestre dell’anno, la cifra di 270 trilioni (scala a sinistra nel grafico allegato). Ancor più significativo è osservare quanto sia cresciuto, solo nell’anno in corso, il rapporto tra il debito complessivo (che include quello governativo e quello privato) e il PIL mondiale: dal 320% al 362% con una previsione di chiusura dell’anno del 365% (linea rossa e scala a destra nel grafico).

L’analisi prosegue andando ad evidenziale come il debito dei cosiddetti paesi maturi (che includono buona parte dell’Europa, USA, Giappone e Australia) sia cresciuto di 50 punti percentuali rispetto alla fine del 2019, raggiungendo un rapporto rispetto al PIL del 432%.

Se volete approfondire l’argomento potete accedere alla pagina dei nostri report trimestrali sulla finanza internazionale che trovate a questo link

Clicca per votare questo articolo!
[Total: 3 Average: 5]

LA CRISI COVID E IL RUOLO DEL DOLLARO NEL SISTEMA MONETARIO

Nel mese di giugno la BIS (Banca per i regolamenti internazionali) ha pubblicato un interessante report che affronta il tema del ruolo del dollaro americano nel sistema di finanziamento internazionale, che trovate a questo link https://www.bis.org/publ/cgfs65.htm in cui si trovano interessanti aggiornamenti anche relativi agli ultimi eventi scaturiti dalla crisi di covid 19.

Il sistema monetario internazionale ruota in maniera indiscutibile intorno al dollaro americano. Questo, detto in maniera semplice, vuol dire che il dollaro è la valuta più utilizzata al mondo, sia sul mercato valutario stesso, ma anche nel commercio estero, nel sistema di indebitamento e in generale del sistema di pagamenti internazionale, infine, last but not least, la maggior parte delle riserve delle banche centrali sono in dollari americani.

Quali sono le implicazioni di questo e soprattutto, le cose sono destinate a cambiare?

Andiamo con ordine.

Il dollaro è la valuta più scambiata sui mercati valutari, il cosiddetto Forex, (oltre il 40% degli scambi), segue l’euro con percentuali intorno al 15% dei volumi e lo yen giapponese col 10%. La valuta della seconda potenza economica, la Cina, presenta volumi intorno al 2% del totale. Il mercato delle valute è il più grande al mondo per volumi scambiati, e se una buona parte di questi hanno fini speculativi, il suo ruolo è decisivo per ogni persona fisica o giuridica che abbia esigenza di approvvigionarsi di una valuta che non sia quella del paese in cui risiede.

Oltre il 50% degli scambi nel commercio internazionale avviene in dollari americani (a fronte di una quota degli USA che è intorno al 10% nel commercio estero e di poco superiore al 20% del Pil mondiale) e il suo dominio è assoluto nel campo delle materie prime che (a partire dal petrolio) sono scambiate in dollari, tanto che i paesi la cui economia è quasi esclusivamente legata al petrolio (come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi) hanno creato un sistema di cambio fisso (il cosiddetto “peg”)  verso il dollaro americano, che lega il valore della loro valuta a quella statunitense, limitando quindi l’incertezza dovuta al cambio.

Circa il 60% del debito internazionale (sotto forma di prestiti bancari o obbligazioni) è in dollari, solo il 20% in euro, marginali le quote di debiti internazionali contratti in Yen giapponesi e Yuan (la valuta cinese). Soprattutto i paesi con valute deboli e con elevata volatilità, sono spesso costrette ad indebitarsi in dollari. Tale prestito garantisce normalmente tassi di interesse inferiori a quelli nella loro valuta e dei minori costi di transazione (grazie al fatto che è molto facile trovare dei prestatori in dollari piuttosto che in altre valute meno liquide), ma soprattutto è meno esposto ad oscillazione del suo valore rispetto a quanto non possa essere un prestito nella valuta locale (che oscilla molto di più di quanto non facciano i dollari), questo può rendere il valore del debito meno incerto e incoraggiare coloro che, all’estero, valutano di investire in quel determinato paese o azienda prestando denaro (cosa che non farebbero se il prestito fosse nella valuta locale che introdurrebbe un elevato rischio di cambio sulla restituzione del prestito stesso). Ultimo ma non meno importante motivo dell’alta quota di debito contratto in dollari è che se il dollaro è la valuta più utilizzata al mondo (lo abbiamo scritto sopra) è più facile che si abbia bisogno di dollari (per comprare petrolio ad esempio) rispetto ad un’altra valuta.

Il dollaro americano è la principale valuta di riserva internazionale. Il 65% delle riserve di valuta sono in dollari americani, solo il 20% in euro, il ruolo delle altre valute, con l’eccezione dello yen giapponese (circa il 4%), è marginale. Ogni banca centrale (con l’eccezione della sola Federal Reserve) possiede ingenti quantità di valuta estera nell’attivo del suo bilancio, e la quota principale è costituita da dollari americani. Le riserve permettono alla banca centrale, tra le altre cose, di poter influenzare all’occorrenza il cambio della propria valuta (operando sul mercato dei cambi) e finanziare le proprie importazioni.

Se il dollaro è la valuta più utilizzata al mondo diventa anche quella che tutti vorranno detenere (in forma liquida, sbarazzandosi degli asset rischiosi) quando si approssima il timore di una crisi mondiale, in questo senso il dollaro americano è considerata valuta rifugio. In un certo modo è come se esistesse un doppio circuito che influenza il valore di questa valuta. Il primo è il circuito nazionale (legato al paese che emette quella valuta), in base al quale i cambi si muovono a seconda di cosa succede negli USA (economia, finanza, politica, …), come avviene per ogni altra valuta. Il secondo circuito invece è quello “internazionale”, e qui il valore del dollaro si separa (in un certo senso) dal paese che lo emette, per diventare una sorta di “valuta mondiale” che, essendo accettata da tutti, è quella che presenta il profilo di rischio minore, perché, qualsiasi cosa succeda, almeno sino a che il dollaro sarà egemone nel mondo, si troverà sempre qualcuno pronto ad accettare dei dollari (cosa che non si può dire, immaginando scenari catastrofici, per lo yuan e per l’euro, tanto per fare due esempi delle principali valute alternative).

Questo ruolo è ben evidenziato nel report della BIS che abbiamo citato, che evidenzia come la quota di prestiti e obbligazioni internazionali emesse in euro e in dollari fosse sostanzialmente eguale nel periodo precedente la crisi dei mutui subprime del 2008 (circa il 40% per ognuna delle due valute) mentre dopo quella crisi il debito emesso in dollari abbia lentamente ricominciato a salire e quello in euro a scendere.

Durante il mese di marzo di quest’anno, in occasione del panico scaturito dalla diffusione dell’epidemia di Covid, il fenomeno ha raggiunto il parossismo con una ricerca spasmodica da parte di tutti gli operatori di liquidità in dollari che ha portato, tra le altre cose, ad una crescita del suo valore contro tutte le valute nonostante i tassi di interesse americani siano scesi dell’1,5% in poche settimane e ha richiesto da parte della Federal Reserve Usa interventi senza precedenti (per un approfondimento su quanto avvenuto vi rimandiamo al nostro sesto report sullo scenario di finanza internazionale, relativo al primo trimestre del 2020, che trovate qui https://www.dirittofuturo.org/?page_id=137).

Il fatto di essere il titolare della valuta di riferimento mondiale di cui si è appena detto, concede agli USA un indiscutibile vantaggio, tra cui maggiori possibilità di “stampare denaro” (con manovre di espansione monetaria come quella in corso) senza rischiare una eccessiva svalutazione della propria moneta, di poter sostenere un elevato deficit commerciale con l’estero (non dovendo incorrere in quella che viene definita “crisi della bilancia dei pagamenti” che si verifica quando un paese viene a mancare di riserve valutarie a causa dell’eccessivo indebitamento con l’estero) e di non dover pagare eccessivi interessi quando emette titoli di stato (nonostante il proprio debito sia tutt’altro che basso): se il dollaro rimane la valuta più utilizzata, esisterà infatti sempre qualcuno disposto a detenere dollari e ad acquistare il suo debito denominato negli stessi.

Non meno importante è il fatto che gli Usa, attraverso il proprio sistema bancario, possano controllare la circolazione della più importante valuta del pianeta. L’OFAC (Office of Foreign Assets Control), posto sotto il controllo del Ministero del Tesoro americano, esercita attività di investigazione al fine di garantire il rispetto delle sanzioni contro paesi esteri comminando sanzioni alle entità pubbliche e private (banche e aziende) che non le rispettino. Per questa ragione è stato definito una delle più potenti e meno conosciute istituzioni in ambito finanziario.

Ormai da parecchi anni ci si interroga sulla possibilità per gli USA di continuare a fare affidamento su questo indiscutibile privilegio e la crisi Covid ha fatto tornare il dibattito più che mai attuale, dato che questa ha portato il debito pubblico USA alle stelle (ora oltre 23.000 miliardi di dollari, superiore al 115% del PIL, ma la cifra pare destinata a salire) ed ha costretto la Fed a grosse iniezioni di liquidità (che potrebbero in teoria indebolire fortemente la sua valuta).

Anche da quanto esposto sopra pare però che per il momento non ci sia alcun segnale, almeno dall’analisi del sistema monetario internazionale, che questo stia avvenendo, anzi parrebbe esattamente il contrario, e in questa crisi il ruolo centrale del dollaro è apparso più forte che mai.

La principale ragione di questo sta a nostro parere non tanto nel fatto che l’economia e l’egemonia geopolitica USA siano in perfetta salute (esistono diversi aspetti che potrebbero far pensare esattamente il contrario, ma ci porterebbero su terreni che esulano dall’obiettivo di questo articolo), quanto alla semplice ragione che non si intravedono al momento alternative al ruolo del dollaro.

Le uniche due valute che potrebbero in qualche modo contrastarlo, o per lo meno eroderne progressivamente il ruolo egemone, sono le valute delle due principali aree economiche alternative e cioè la Cina e l’Eurozona.

Riguardo la Cina, come detto il ruolo dello Yuan è marginale negli scambi internazionali e questo non è altro che il risultato della scelta del governo cinese, dato che con l’eccezione dello Yuan Off shore (che costituisce una quota di circa il 2% degli Yuan in circolazione) la valuta cinese può essere scambiata solo all’interno del paese, il cambio con il dollaro è controllato dalla banca centrale che definisce un riferimento giornaliero attorno al quale è ammessa una massima oscillazione del 2% e la mobilità dei capitali è limitata (cosa questa peraltro inevitabile conseguenza dei primi due punti). Se questo limita alquanto le possibilità per la Cina di reperire capitale all’estero tramite debito internazionale (le obbligazioni internazionali cinesi sono circa il 2% del totale emesso) è assai difficile che qualcuno decida di scambiare volentieri beni in Yuan, considerando che si troverebbe in mano qualcosa di non utilizzabile se non con la Cina stessa, oltre che soggetto non  ad una legge di mercato, ma solamente ai desiderata della Banca Centrale Cinese stessa che controlla il cambio. Ultimo ma non meno importante aspetto è che al momento esiste una certa diffidenza (difficile dire quanto fondata) sulla trasparenza dei dati forniti dalla Cina, sia dal punto di vista economico sia finanziario, e questo non può certo aiutare una eventuale crescita dell’utilizzo della sua valuta (e un acquisto del suo debito) all’estero. Non è detto che tutto questo non possa cambiare, ma soprattutto il primo aspetto (legato alla liberalizzazione della circolazione dei capitali e alla completa convertibilità dello Yuan) richiederebbe (ammesso che questa sia la sua intenzione) non pochi cambiamenti nella gestione economica e finanziaria del paese da parte del suo governo che potrebbero richiedere parecchio tempo e altrettanti rischi.

Riguardo l’Europa, pur non essendo presente nessuno dei limiti esposti per la Cina, la debolezza dell’euro rispetto al dollaro su questo fronte ha ragioni a nostro parere più politiche che finanziarie o economiche, dato che l’Euro possiederebbe tutti i requisiti fondamentali per poter competere almeno alla pari con il dollaro nel ruolo di valuta internazionale, considerando soprattutto il vantaggio legato alla sua posizione di area esportatrice e meno (nel suo complesso) indebitata degli USA, anche sul fronte governativo. Ci sono però nella medesima area ancora troppe incertezze relative al suo stesso futuro, oltre che alla carenza di un reale ruolo politico soprattutto in campo internazionale, rispetto alle quali non si vedono ancora sufficienti margini di miglioramento, nonostante i progressi fatti almeno nell’ultimo anno.

Clicca per votare questo articolo!
[Total: 4 Average: 5]

Previsioni sul PIL USA: tonfo del 40% nel secondo semestre

Previsione OCSE sull’andamento del PIL USA nel secondo trimestre 2020

Il PIL negli Stati Uniti è sceso del 5% nel primo trimestre 2020. Per il secondo trimestre Il Budget Office del Congresso stima un calo del Pil del 38%, Tradingeconomics e Deutsche Bank del 40%. The Conference Board prevede un tonfo addirittura del 45% su base annuale, con una caduta dei consumi del 54% e delle esportazioni del 35%. L’Ocse prevede un crollo del 41,4% (vedi figura) e un tasso di disoccupazione del 17,5%.

Secondo il US Bureau of Labor Statistics, l’economia americana ha perso 20,5 milioni di posti di lavoro nell’aprile 2020, dopo averne persi 870 mila a marzo. Prima della pandemia, l’economia creava ogni mese circa 200 mila nuovi posti. Per continuare ad espandersi servono all’economia americana 150 mila nuovi posti al mese.

Clicca per votare questo articolo!
[Total: 4 Average: 5]

L’ECONOMIA CROLLA … E LE BORSE SONO DI NUOVO AI MASSIMI

Quello che vedete in allegato è il grafico dell’andamento del contratto Future sull’indice azionario Nasdaq 100, che rispecchia l’andamento dei 100 maggiori titoli del settore tecnologico e della new economy degli Stati Uniti d’America.

Si trova ora ad appena l’1% dai massimi assoluti che erano stati toccati a febbraio prima della diffusione della pandemia di coronavirus in Europa e nel resto del mondo. Da quel valore l’indice è arrivato a perdere, in appena un mese, oltre il 30%. La medesima perdita, in poco più di due mesi è stata completamente riassorbita. Rispetto agli altri indici azionari, essendo legato a titoli come Amazon, Apple, Netflix, Microsoft e Alphabet (la holding a cui fa riferimento Google) che meno hanno patito dall’epidemia (anzi, in molto casi hanno visto incrementare il proprio business) il Nasdaq perse meno (l’indice italiano ad esempio arrivò a perdere il 40%) ed ora ha recuperato più rapidamente, tanto che ormai si ritrova ai massimi, come se nulla in questi mesi fosse successo.

Anche gli indici azionari di altri paesi hanno recuperato buona parte delle perdite: gli indici di Giappone, Cina, Corea e l’S&P 500 (altro indice americano contenente i principali 500 titoli) si trovano ora a meno del 10% dai massimi precedenti la pandemia.

Nello stesso tempo, se nel sudest asiatico la situazione è praticamente tornata alla normalità e in Europa questo potrebbe succedere a breve, negli Stati Uniti e in Sudamerica la pandemia è lungi dall’essere stata superata, ma soprattutto nessuno è in grado di prevedere con certezza se il fenomeno potrà ripartire con eguale o maggiore intensità nei prossimi mesi o nel prossimo inverno.

Lasciando da parte le previsioni epidemiologiche, che sono per definizione incerte, ciò che è certo è che i dati reali dell’economia mondiale sono inquietanti, sia in termine di disoccupazione (con in testa gli Stati Uniti) sia di crescita economica (le previsioni per il crollo del PIL calcolato sul secondo trimestre arrivano per alcuni paesi al 30% e in proiezione annua in molti casi poco sotto il 10%). Oltre a questo, tutti i paesi hanno visto crescere, al fine di venire incontro agli effetti dell’epidemia, il loro debito pubblico, in alcuni casi (vedi quello italiano che è previsto passare dal 132 al 155% nel suo rapporto sul PIL) anche con timori sulla loro sostenibilità.

Come è possibile tutto questo? Come è possibile che i mercati azionari, che già da 11 anni erano stati in continua crescita (con apprezzamenti di 4 volte il loro valore, come nel caso di quelli americani) sembrino al momento immuni da questa situazione che per molti versi ricorda quella della più grave crisi economica e finanziaria della storia moderna che fu quella del 1929?

Proviamo ad elencare i fattori che possono aver guidato questo rialzo che pur, lo anticipiamo, potrebbe rappresentare, a nostro parere, il maggiore scollamento tra l’economia reale e quella finanziaria mai avvenuto in tempi recenti.

  1. I mercati si muovono sulle aspettative: come sempre avviene i mercati finanziari anticipano (o cercano di farlo) sia le crisi sia le riprese del ciclo economico. Se così fosse questo è segno che chi sta comprando azioni si attende che il fenomeno pandemico sia ormai sostanzialmente alle spalle e l’economia si riprenderà più forte di prima e in alcuni casi (come nel caso delle aziende tecnologiche) la pandemia è stato anzi un viatico per la crescita ulteriore del business stesso (il caso di Amazon è sicuramente paradigmatico).
  2. Difficilmente i mercati azionari, dopo essere saliti per diversi anni, crollano in un colpo solo: se è vero che le discese nei mercati azionari sono sempre più rapide delle salite, è anche vero che 11 anni di rialzo non si cancellano così facilmente. Se esiste il panico (e questo spiega il crollo verticale avvenuto nel mese di marzo), esiste anche un effetto “memoria” da parte dell’investitore, e 11 anni di rialzi e di guadagni non si cancellano in un mese. Appena si rivede uno spiraglio, sono molti a sperare che la crisi sia stata solo passeggera e molti ritornano sul mercato a volte in maniera del tutto irrazionale. Successe così anche nelle ultime 2 crisi, quella della bolla di Internet del 2000 – 2002 e quella dei mutui subprime (la discesa delle borse in quel caso iniziò già nel 2007, ma si dovette aspettare il 2008 per la vera e propria capitolazione degli investitori e il crollo finale dopo il quale si iniziò a risalire). In alcuni casi, oltre all’effetto memoria, si puo’ parlare di una vera e propria dipendenza dai mercati (e dai guadagni che negli ultimi 11 anni hanno elargito). Nel mese di maggio è stata svolta un’indagine su alcuni conti correnti degli americani che hanno percepito indennità statali e sussidi sotto diverse forme. Per alcune fasce di reddito (tra i 35.000 e i 75.000 dollari all’anno), la voce “acquisto di azioni” è stata preceduta solo da quella “risparmi” e “ritiro contante per spese correnti” nell’utilizzo dei contributi statali stessi. Considerando che molte aziende hanno sospeso i cosiddetti buy back (riacquisto di azioni proprie con lo scopo di aumentare la propria redditività), che sino al 2019 erano stati la principale guida del rialzo delle borse, potremmo dunque trovarci di fronte ad un rialzo in misura maggiore guidato dai “piccoli investitori”, meno elegantemente altre volte soprannominati “parco buoi”, che storicamente sono destinati a perdere denaro. Potrebbe essere così anche questa volta.
  3. Le azioni sono l’unica cosa che rende: l’investimento in azioni è uno dei più rischiosi (in genere più di obbligazioni e depositi bancari) e la gente investirà i soldi in borsa (dove si può guadagnare molto ma anche perdere tutto) qualora sia conveniente farlo, avendo in mente quali sono le alternative. Al momento le alternative non esistono quasi, dato che le obbligazioni statali hanno ormai tassi che quando va bene sono a zero (altrimenti negativi) e lo stesso si dica dei conti corrente (in cui ormai alcune banche stanno iniziando a chiedere compensi per depositi oltre una certa cifra, il che equivale a dire che gli interessi sul conto corrente sono negativi). Nel mese di marzo la banca centrale americana ha abbassato il tasso di sconto dal 1,75% allo 0,25%, eliminando di fatto l’ultima occasione di guadagno per chi voleva fare investimenti relativamente sicuri (i depositi in dollari o i bond statali americani) e nello stesso tempo poter ricevere ancora degli interessi. Negli altri paesi (maturi) i tassi erano già a zero da tempo e per la cronaca anche le banche centrali di paesi solitamente più “generosi” come Australia e Canada hanno portato il tasso di sconto allo 0,25%.
  4. La liquidità abbonda: a seguito della pandemia da Coronavirus tutte le banche centrali hanno continuato a iniettare liquidità nel sistema rafforzando o ricominciando il cosiddetto quantitative easing, comprando obbligazioni statali e private per finanziare gli stati e per cercare di impedire che molte aziende fallissero e facendo quindi girare tanto denaro nel sistema bancario. La Federal Reserve americana ha iniziato nel mese di maggio ad acquistare anche ETF (exchange traded fund, sono titoli di investimento passivo) che investono in obbligazioni High Yield. Le obbligazioni High Yield sono le uniche che ancora concedono interessi per la semplice ragione che sono emesse da aziende ad elevato rischio di default (per capirsi, pochi giorni prima del suo default, erano state acquistate anche obbligazioni della Hertz). Tutta questa liquidità però sembra non stia finendo dove dovrebbe, dato che i prestiti bancari non stanno crescendo perché, evidentemente, le banche non si fidano di coloro a cui dovrebbero prestarli. E dove vanno a finire i soldi che entrano in circolo se non vanno in investimenti reali? Nella finanza, appunto.

Solo il tempo ci potrà dire se le “aspettative” dei mercati azionari sono state o meno corrette. Di questo ed altro parleremo nel nostro prossimo report trimestrale sulla finanza internazionale in cui approfondiremo quanto è successo nel secondo trimestre. Manca ancora un mese e di questi tempi in un mese di cose ne possono succedere parecchie.

Nel frattempo, a questo link potete trovare i numeri precedenti della pubblicazione.

Clicca per votare questo articolo!
[Total: 4 Average: 5]