Se si sfogliano le principali pagine di informazione economica non si può evitare di notare, da qualche mese a questa parte, un gran parlare di inflazione.
La scorsa settimana il governatore della Bundesbank Jens Weidmann ha affermato che si attende, per l’anno in corso, un rialzo dell’inflazione tedesca del 3%, ben oltre i limiti del target del 2% posto della BCE per l’eurozona. È opportuno ricordare che una tale inflazione in Germania, dagli anni ’90 ad oggi, la si è toccata solo nel 2008, prima della crisi dei mutui subprime. Da allora, nonostante le iniezioni di liquidità della banca centrale europea e i tassi di interesse a zero, nulla di tutto ciò è mai accaduto e l’inflazione in Germania ha superato il 2% solo per brevi periodi. Simile, ma con tassi di aumento dei prezzi ancora più bassi di quelli tedeschi, è stata l’evoluzione dell’inflazione nell’eurozona nel suo complesso, che si è spinta al di là del 2% solo per alcuni mesi nel 2018.
Se si guarda alla situazione attuale della crescita dei prezzi e la si confronta con quella precedente alla pandemia, del resto, poco ci sarebbe da preoccuparsi né si spiegherebbe l’interesse attorno a questo tema (riscontrabile peraltro anche consultando le tendenze nel principale motore di ricerca su internet). Ecco la situazione a confronto nei principali paesi tra il mese di febbraio 2020 e oggi (ultimo dato rilevato di gennaio):
Eurozona: 1,2% –> 0,9%
Germania: 1,7% –> 1%
Francia: 1,4% –> 0,6%
Italia: 0,3% –> 0,2%
Spagna: 0,7%–> 0,5%
La medesima analisi su paesi extra UE non offre risultati molto differenti, anzi, nel caso di Cina e Giappone si osserva una deflazione che non si vedeva, nel primo caso dal 2009 e nel secondo dal 2016.
USA: 2,3% –> 1,4%
Giappone: 0,7% –> -1,2%
Cina: 5,2% –> – 0,3%
Australia: 1,9% –> 0,9%
India: 6,5% –> 4%
Insomma, in nessuna parte del mondo l’inflazione pare essere tornata a livelli pari a quelli precedenti la crisi pandemica, che pur, al netto della Cina, erano comunque valori che facevano rilevare un rallentamento dal 2018.
Allargando lo sguardo, del resto, la tendenza inflazionistica mondiale appare piuttosto chiara ed è di forte declino, come si può vedere nella figura qui allegata che ne mostra l’evoluzione dal 1980 ad oggi. Sulle ragioni del calo tendenziale dell’inflazione si parla da tempo a tutti i livelli in ambito economico, qui ci possiamo quindi limitare a provare a citare alcune di quelle che possono aver contribuito a questo fenomeno: la crescita della globalizzazione e la conseguente competizione internazionale hanno messo sotto pressione i prezzi dei beni oltre che dei salari, il calo demografico tendenziale nei paesi con economie più forti porta ad una minore pressione sui prezzi, analogo effetto hanno la ridotta crescita economica (rispetto al periodo che va dagli anni ’60 agli anni ’80) nelle medesime economie mature (questo ragionamento, sulla crescita del PIL, esonera chiaramente, almeno sino ad ora, alcune economie emergenti dove, non a caso, l’inflazione, anche per la crescita demografica ancora presente, è ben maggiore).
A queste ragioni, che sono fondamentalmente condivise, come possibili “spinte contrarie” ad una salita dei prezzi, se ne aggiungono altre su cui invece il dibattito, anche sulla base della diversa scuola di pensiero economico di appartenenza, è più acceso. La critica di fondo che viene fatta alle politiche delle banche centrali dagli economisti di impostazione macroeconomica keynesiana riguarda l’efficacia stessa delle politiche monetarie per stimolare l’inflazione se non accompagnate da manovre di tipo fiscale che implichino una crescita degli investimenti pubblici e di redistribuzione del reddito. In modo particolare il tema della crescita delle diseguaglianze, un processo in atto almeno dai primi anni ’80 (lo stesso periodo da cui l’inflazione ha iniziato a calare), viene visto come una delle ragioni della scarsa crescita economica e della conseguente stagnazione dei prezzi che finisce per alimentare la bassa crescita stessa. Ne abbiamo già parlato qui:
https://www.dirittofuturo.org/wp-content/uploads/2020/07/Rapporto-OSFI-7-Giugno-2020.pdf
Per tornare ai giorni nostri allora, per quale motivo esiste una preoccupazione crescente per una possibile spinta inflazionistica? Le ragioni sono a nostro parere essenzialmente due.
La prima è che si teme che l’effetto del mix di ripresa economica post pandemica e iniezioni di liquidità delle banche centrali (che sono ulteriormente cresciute dal marzo 2020 e tutt’ora continuano) possa ingenerare tale aumento dei prezzi. È difficile dire quanto questo sia giustificato se si osservano i dati reali. Il quantitative easing è in corso in Europa (con una breve interruzione) dal 2015, in Giappone dal 2013, negli stessi paesi i tassi di interesse sono da parecchi anni a zero o negativi, ma gli obiettivi di inflazione non sono stati affatto centrati. Anche negli USA, l’obiettivo di inflazione della Federal Reserve, dal 2009 ad oggi, è stato superato solo per alcuni mesi nel 2018. In una conferenza stampa di qualche anno fa l’allora Presidente della stessa banca centrale USA Janet Yellen ebbe a dire che “l’andamento dell’inflazione sta diventando difficile da comprendere”.
La seconda ragione ha invece a che fare con quello che è successo in questi anni e che si chiama aumento della leva finanziaria e cioè crescita dell’ indebitamento delle istituzioni pubbliche, ma soprattutto di alcune di quelle private. Nel medesimo report che abbiamo citato sopra avevamo analizzato la crescita del debito corporate (cioè il debito delle aziende) che, soprattutto in USA, ha ingenerato una massa enorme di titoli finanziari a basso rating come i junk bond o i CLO (collateralized loan obligation che sono obbligazioni garantite da prestiti sottostanti spesso classificati come leveredged, e ad alto rischio). È utile notare come dal 2020 il tasso di crescita dello stesso debito definito junk sia aumentato ed abbia iniziato ad essere acquistato sia dalla Fed sia dalla BCE. I soggetti beneficiari di questo denaro sono spesso le cosiddette zombie companies, cioè le imprese i cui costi di finanziamento superano i profitti e che sopravvivono in buona parte grazie ai tassi bassi e alla generosità di prestiti favoriti dalla eccezionale iniezione di liquidità. Il fenomeno è più diffuso negli USA, ma anche l’Europa, seppur in proporzione minore, non ne è immune.
Il paradosso di questi tempi, che mostra la situazione difficile in cui le banche centrali si sono avventurate (ammesso che avessero una scelta), è che se da un lato le politiche monetarie auspicano e sono indirizzate (anche) ad una crescita dell’inflazione, nello stesso tempo non sarà facile decidere cosa fare se tali obiettivi dovessero mai essere raggiunti, ma soprattutto superati. Sarebbe allora il momento, per evitare che l’inflazione cresca troppo, di mettere fine alle politiche espansive e soprattutto di ricominciare ad alzare i tassi di interesse, manovra, quest’ultima, che rischierebbe di mettere fine alla vita di molte di quelle imprese che solo di bassi tassi di interesse (e degli acquisti delle banche centrali) stanno vivendo.
Per un ulteriore approfondimento sul tema dell’inflazione potete consultare questo nostro report.
https://www.dirittofuturo.org/wp-content/uploads/2020/10/Rapporto-OSFI-8-Settembre-2020.pdf