ISTAT: CRESCONO I DIVARI DI GENERE NEL MERCATO DEL LAVORO

I dati dell’Istat relativi al IV trimestre 2020 presentati il 12 marzo 2021 ( https://www.istat.it/it/files//2021/03/Mercato_lavoro_IV_trim_2020.pdf)  evidenziano come la situazione del mercato del lavoro sia ancora ampiamente influenzata dalle misure di contenimento del COVID-19, anche se si intravede qualche miglioramento nel numero di occupati rispetto al trimestre precedente. Cresce infatti il numero di occupati di 54 mila unità, grazie soprattutto all’aumento dei lavoratori a tempo indeterminato, che supera il calo dei dipendenti a termine. I disoccupati scendono di 122 mila unità e gli inattivi sono 10 mila in meno. Ma gli occupati sono ancora 1,8% in meno e gli inattivi il 3,1% in più rispetto al IV trimestre 2019.

I divari di genere sul mercato del lavoro italiano, seppure molto elevati, nell’ultimo decennio e fino allo scoppio della pandemia si stavano lentamente riducendo. Ora i dati mostrano evidenti segnali di peggioramento della situazione occupazionale delle donne.

Nelle tavole presentate dall’Istat emergono infatti dati allarmanti relativi ai divari di genere. Il tasso di occupazione maschile è del 67,3%, quello femminile è del 49,4%. Il tasso di inattività femminile è del 44,8% e quello maschile del 25,9%. La crescita del tasso di inattività nell’ultimo trimestre del 2020 rispetto al corrispondente periodo dell’anno precedente è di +1,5 punti per le donne e +0,9 punti per gli uomini. Se consideriamo poi i motivi dell’inattività, i divari di genere più evidenti riguardano i motivi familiari. Nell’ultimo trimestre 2020 non hanno cercato lavoro per motivi familiari 131 mila uomini (-4,8% rispetto allo stesso trimestre 2019) e 2.884 mila donne (+ 3,3% in più rispetto al IV trimestre 2019).  Anche il fenomeno dello scoraggiamento (cioè la convinzione di non riuscire a trovare lavoro) coinvolge le donne (+845 mila) più che gli uomini (+568 mila) e in un anno è cresciuto dell’8,3% per le donne e del 3,8% per gli uomini.

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I TASSI DI INTERESSE DELLA BCE

La BCE definisce ogni sei settimane i tassi di interesse che guidano le politiche di finanziamento del sistema bancario e quindi dell’economia dell’intera eurozona.

Quali sono questi tassi e quale è la logica di politica monetaria che vi è sottesa da qualche anno a questa parte?

TASSO SULLE OPERAZIONI DI RIFINANZIMENTO PRINCIPALI: questo è il tasso per i prestiti che la BCE fa alle banche sulle operazioni di prestito della durata di una settimana. Esso è attualmente a zero. Questi tassi raggiunsero il massimo nel 2008 ed arrivarono sino al 4,25%. A seguito della crisi dei mutui subprime iniziarono ad essere abbassati e dal marzo 2016 si trovano a 0. Le banche non hanno quindi costi per questo tipo di operazioni.

TASSO SULLE OPERAZIONI DI RIFINANZIAMENTO MARGINALI: questo è il tasso per i prestiti che la BCE fa alle banche sulle operazioni di prestito overnight (cioè in cui la restituzione del denaro preso a prestito avviene entro la giornata successiva). Esso è attualmente positivo per lo 0,25%, con un processo di progressiva discesa che, analogamente al tasso precedente, parte dal 2008.

TASSO DI INTERESSE SUI DEPOSITI PRESSO LA BCE (TASSO DI DEPOSITO OVERNIGHT): tutte le banche dispongono di cosiddette riserve che non sono altro che il denaro depositato sui conti correnti che non viene prestato, ma diviene appunto riserva bancaria. Una prima quota sono le cosiddette riserve obbligatorie, cioè quelle che le banche sono obbligate a tenere depositate presso la banca centrale del paese di appartenenza, come forma di garanzia. Il calcolo non viene fatto giornalmente, ma sulla media delle ultime sei settimane. Dal gennaio del 2012 la quota di riserva obbligatoria delle banche è dell’1% delle loro passività (prevalentemente costituite dai depositi della clientela). Su questa quota le banche centrali ricevono una remunerazione teorica, che però da tempo è pari a zero.

Per quello che riguarda invece le riserve eccedenti la riserva obbligatoria, queste sono depositate presso la BCE e la remunerazione è invece stabilita dal cosiddetto tasso di deposito overnight. Tale tasso è attualmente negativo: -0,5% ed è stato progressivamente abbassato dal 2014 ad oggi (quando per la prima volta divenne negativo dello 0,1%). Ciò significa che le banche devono pagare per tenere depositato il loro denaro nottetempo presso la BCE. Tale manovra è evidentemente finalizzata a disincentivare le banche dal tenere del denaro fermo senza prestarlo. Questo, se da un lato ha degli effetti negativi sulla redditività delle banche, che col tempo finiscono inevitabilmente con il ricaricare questi costi sui clienti, dall’altro dovrebbe essere un incentivo per le banche stesse a prestare denaro. Per un approfondimento sui tassi di interesse negativi potete scaricare questo nostro report

https://www.dirittofuturo.org/wp-content/uploads/2020/04/OSFI_Scenario_di_finanza_internazionale_n_4_settembre_2019.pdf

La stessa logica, incentivare i prestiti a famiglie e imprese, è sottesa alle operazioni di finanziamento agevolato alle banche (TLTROIII e PELTRO) attualmente in corso, per le quali le banche vengono addirittura remunerate per prestare denaro. Ne abbiamo parlato nel dettaglio qui https://www.dirittofuturo.org/?p=987

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BCE: una sintesi delle manovre monetarie in corso

A seguito della riunione della BCE di giovedì 11 marzo, Christine Lagarde ha annunciato che il passo di acquisti del piano pandemico PEPP potrebbe accelerare, pur nell’ambito della cifra complessiva a suo tempo stabilita di 1850 miliardi di euro. Ma quali sono le manovre monetarie in corso da parte della BCE? Alcune sono precedenti al periodo pandemico e proseguiranno sino almeno al 2022. Proviamo a fare una sintesi.

TLTRO III (targeted long term refinancing operations): si tratta di prestiti agevolati al sistema bancario della durata sino a 4 anni, partiti nel settembre del 2019 ed emessi con cadenza trimestrale sino al giugno del 2022. Si tratta del terzo programma di questo tipo, i due precedenti furono lanciati nel 2014 e nel 2016. I finanziamenti sono concessi tramite meccanismo di asta e sono “a target” dato che sono funzione dei prestiti che le banche hanno precedentemente concesso a imprese e famiglie. I tassi di interesse concessi sono inferiori allo 0,5% dei tassi medi di rifinanziamento del periodo (i tassi a cui normalmente le banche sottoscrivono prestiti di breve termine per ottenere liquidità) e possono scendere ulteriormente in base ai target di prestiti che le banche raggiungeranno e sono in questo momento quindi di fatto negativi. In sostanza la BCE paga le banche per incentivarle a fare prestiti.

PELTRO (pandemic emergency longer-term refinancing operations): si tratta di un programma di finanziamenti alle banche lanciato in occasione della crisi pandemica nell’aprile 2020 con prestiti alle banche “per sostenere le condizioni di liquidità del sistema finanziario dell’area dell’euro e contribuire a preservare l’ordinato funzionamento dei mercati monetari fornendo un efficace supporto di liquidità”. Queste operazioni hanno quindi l’obiettivo di fornire liquidità al sistema bancario (e a differenza delle TLTRO non vengono effettuati sulla base di un target definito). Inizialmente previste sino al 2020, sono state estese anche al 2021. I tassi di interesse sono dello 0,25% inferiori rispetto ai tassi medi di rifinanziamento.

APP (asset purchase programme): col noto programma di quantitative easing avviato nel 2015, la BCE arrivò ad acquistare sino a 80 miliardi di euro al mese di titoli governativi e privati. Gli acquisti diminuirono progressivamente per poi essere sospesi (al netto del reinvestimento delle cedole incassate) nel dicembre 2018, ma furono riavviati nel novembre del 2019 con acquisti di 20 miliardi di euro al mese. Il programma è tutt’ora in corso e non è al momento prevista una scadenza.

PEPP (pandemic emergency purchase programme): il piano pandemico di acquisto di titoli fu fissato in una cifra complessiva iniziale di 750 miliardi e poi incrementato sino a un ammontare massimo complessivo di 1850. In questo caso gli acquisti non sono fissi, ma flessibili e non termineranno comunque prima del marzo 2022. Al momento la media degli acquisti, dopo circa un anno dall’inizio del programma, è stata di 18 miliardi a settimana, ma con acquisti decrescenti negli ultimi mesi, e una spesa quindi di circa la metà dell’intero programma previsto.

Per dare un’idea della portata e dell’impatto di questi programmi di allentamento monetario, è utile considerare che il bilancio della BCE è passato da circa 2000 miliardi di euro del 2015 agli attuali 7100 (quindi più che triplicato), cifra che si avvicina al 60% del PIL dell’eurozona.

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GLI OBIETTIVI ECONOMICI DELLA CINA PER IL 2021

In un report governativo del suo Premier Li Keqiang, venerdì scorso la Cina ha comunicato gli obiettivi economici del paese per il 2021.

Secondo le aspettative il PIL crescerà del 6%, passo che sostanzialmente riprende quello interrotto dalla crisi pandemica, dato che la crescita fu la medesima nel 2019. Il 2020 pur si è chiuso con un risultato che, unico tra le grandi economie, rimane positivo del 2,3%.

Tra gli altri target definiti dal governo, un livello del 5,5% di disoccupazione urbana (nel 2020 è stato del 5,6%) e la creazione nelle medesime aree di 11 milioni di posti di lavoro, evidentemente da raggiungere attraverso la migrazione dalle aree agricole. In leggera crescita è prevista l’inflazione, al 3% rispetto al 2,5% del 2020.

E’ bene ricordare come in questo mese verrà approvato il piano quinquennale 2021 – 2025, i cui contenuti sono stati anticipati nell’ottobre scorso, con la definizione della strategia della doppia circolazione, che sancisce una ridefinizione degli obiettivi economici, più orientati verso l’interno che verso le esportazioni e la creazione di surplus commerciale, puntando invece soprattutto su maggiori investimenti finalizzati ad ottenere l’indipendenza tecnologica oltre che un aumento del tenore di vita della popolazione e la crescita della classe media. Ne abbiamo parlato qui https://www.dirittofuturo.org/wp-content/uploads/2021/01/OSFI_Scenario_di_finanza_internazionale_n_9_dicembre_2020.pdf

Coerentemente con questa impostazione il report governativo comunicato da Li Keqiang parla esplicitamente di un “sostanziale equilibrio della bilancia dei pagamenti” che bisognerà vedere se sarà confermato dai numeri reali di fine anno, dato che sarebbe la prima volta che ciò accade. E opportuno dire che tale direzione era in parte in divenire da alcuni anni, con una progressiva riduzione del surplus cinese (valutato rispetto al PIL) che nel 2007 arrivò a superare il 10% a fronte di un 2,1% stimato dall’IFO per il 2020. Nonostante questa diminuzione, relativa, del suo surplus, secondo le stime del medesimo istituto tedesco, nel 2020 la Cina ha per la prima volta superato, in valore assoluto, anche il surplus della Germania.

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IL COEFFICIENTE DI GINI E LE DISEGUAGLIANZE DI REDDITO

Il coefficiente di Gini in Italia, alla fine del 2019, era pari a 34,8 ed è ulteriormente cresciuto nel corso del 2020 a seguito della pandemia. Il dato è stato citato da Mario Draghi nel discorso fatto in senato a seguito dell’insediamento del nuovo governo.

Che cosa è il coefficiente di Gini?

Introdotto dallo statistico Corrado Gini nel secolo scorso, il coefficiente è in sé una misura di distribuzione che viene usata per valutare le diseguaglianze di reddito nella popolazione. Il coefficiente può oscillare da un valore teorico di 0, in cui il reddito è distribuito in maniera perfettamente eguale tra la popolazione, ad uno di 100 in cui tutto il reddito è concentrato nelle mani di una sola persona.

Nella mappa allegata potete vedere le differenze secondo questo coefficiente tra i paesi del pianeta nel 2020. Quelli colorati in blu scuro sono quelli con le maggiori differenze di reddito.

Come si può notare, tra i cosiddetti paesi sviluppati la maggiore concentrazione del reddito, che è peraltro cresciuta parecchio negli ultimi 40 anni, come già abbiamo evidenziato in questo articolo, https://www.dirittofuturo.org/?p=813, è quella degli USA che nel 2019 misurava 48. Minore invece in Europa e in modo particolare nei paesi scandinavi, intorno ai 28 punti. All’interno dell’Unione europea l’Italia si trova tra i paesi con indice più alto (quindi con differenze di reddito maggiori) dietro solo a Bulgaria, Lituania, Lettonia e Romania e con valori simili a quelli della Spagna.

Guardando al resto del pianeta rimangono ancora molto elevate le diseguaglianze di reddito, soprattutto nei paesi dell’Africa subsahariana e in Sud America.

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LA LEVA FINANZIARIA DEI TRADER RETAIL È AI MASSIMI STORICI

Qualche settimana fa avevamo scritto del fenomeno Gamestop e della crescita dell’attività di trading dei cosiddetti “retail”, cioè i piccoli investitori. https://www.dirittofuturo.org/?p=745

Nell’ultimo quarterly report la BIS (Bank for International Settlements) analizza il fenomeno sotto alcuni punti di vista. Se da un lato viene messo in evidenza come, almeno dal 2017, sia cresciuta l’attività giornaliera dovuta all’acquisto di singoli titoli piuttosto che di ETF (exchange – traded funds), ancora più interessante ci pare il grafico che alleghiamo e che riguarda la crescita dell’uso della leva finanziaria da parte dei medesimi investitori retail.

Gli acquisti di singoli titoli azionari e di vari strumenti derivati sugli stessi sono spesso finanziati a debito, colui che effettua l’operazione utilizza quindi la leva finanziaria che gli permette di avere a disposizione una quantità di denaro (il cosiddetto margine) inferiore a quella realmente investita.

Le operazioni in leva evidenziano una maggiore disponibilità degli investitori ad assumersi dei rischi, dato che se permettono un guadagno maggiore (di cui la leva è moltiplicatore), nello stesso tempo sono molto più suscettibili alle oscillazioni di mercato ed aumentano le probabilità di perdita dell’intero capitale investito.

Tornando al grafico qui evidenziato, la curva in blu indica, in USA, il valore assoluto di questo indebitamento (che a dicembre ha superato i 750 miliardi di dollari), quella in rosso il medesimo indebitamento rapportato al PIL del paese del trimestre precedente. È abbastanza evidente che ci troviamo ad un massimo di tale esposizione che ha superato anche i picchi del periodo della bolla di internet (2000) e di quella dei mutui subprime (2007-2008).

Nel fine settimana il congresso USA ha approvato un piano di stimoli da 1900 miliardi di dollari. Di questa quota, almeno mille sono trasferimenti diretti alle famiglie. In questo scenario viene da chiedersi (ma soprattutto da sperare il contrario) quanto di questo denaro verrà investito in attività di speculazione, come è già avvenuto (ne abbiamo parlato nell’articolo citato sopra) in occasione delle erogazioni dello scorso anno.

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COS’E’ IL CONTROLLO DELLA CURVA DEI RENDIMENTI?

Ormai da qualche settimana si sente parlare con insistenza sulle principali fonti di informazione economica e finanziaria di curva dei rendimenti e dell’ipotesi che la banca centrale americana (quella giapponese lo fa da tempo) possa decidere di controllarla, soprattutto sulle durate più lunghe come quella decennale.  

Cosa significa? Prima di parlare dei rendimenti obbligazionari a dieci anni e di quello che sta succedendo in questi giorni, partiremo da lontano, iniziando dal tasso di riferimento di breve periodo che in USA è il cosiddetto Fed Funds rate.

L’obiettivo di Fed Funds rate viene stabilito ad ogni riunione periodica della Banca Centrale (FOMC: Federal Open Market Committee), esso è il tasso di interesse interbancario, cioè quello a cui le banche si prestano denaro tra loro.

Il mercato interbancario è la prima fonte di finanziamento di brevissimo periodo di qualsiasi operatore finanziario per due ragioni: la prima è che non tutti gli operatori hanno accesso al prestatore di ultima istanza (che è la banca centrale) dato che solo le banche vere e proprie possono farlo, mentre altri operatori (come i broker, gli hedge fund e i fondi immobiliari, i cosiddetti Reit) non hanno accesso a queste fonti di finanziamento. La seconda ragione è che il tasso di interesse interbancario è normalmente più basso di quello a cui la banca centrale presta denaro alle banche (il tasso di sconto) e diventa quindi la prima fonte di approvvigionamento di prestiti a breve periodo. Nelle intenzioni della banca centrale, infatti, il suo intervento tramite prestiti diretti alle banche deve essere solo di ultima istanza, ma in una situazione “normale” gli operatori privati devono fare da sé utilizzando il mercato interbancario il cui tasso di interesse dovrà quindi essere più basso di quello ufficiale di sconto. Il tasso interbancario è ovviamente sottoposto alle leggi di mercato e se cresce la domanda di prestiti crescerà anche il tasso di interesse. Però qualora il tasso di mercato salisse troppo (cioè sopra il valore del tasso di sconto), il compito della banca centrale è di fare in modo che i tassi interbancari ritornino a una situazione di normalità con interventi diretti sul mercato interbancario (con operazioni dette Repo, Repurchasing agreement) che consistono in prestiti di brevissimo periodo (anche inferiori a un giorno, “overnight”, o superiori, “term”) in cambio di titoli obbligazionari (che fungono quindi da collaterale di garanzia), ma con un accordo di “riacquisto”, da parte di colui che contrae il prestito, già definito in termini di prezzo e di tempo. Questo meccanismo fa quindi crescere la liquidità nel circuito e scendere i tassi di interesse. Nel caso in cui ci sia invece troppa liquidità (e i tassi interbancari scendessero eccessivamente), la banca centrale farà l’operazione opposta, i reverse Repo, ritirando liquidità dal mercato in modo da far risalire i tassi di interesse sopra il valore di un altro tasso che è definito dalla Banca centrale e cioè il tasso a cui questa remunera le riserve che le banche non prestano ai loro clienti e depositano presso la Federal Reserve stessa. Si vengono quindi a formare due riferimenti al di sopra e al di sotto dei quali la Banca Centrale, attraverso operazioni di mercato si impegnerà a non far oscillare i tassi interbancari: il tasso ufficiale di sconto (riferimento superiore) e il tasso a cui vengono remunerate le riserve (riferimento inferiore).

I tassi a breve periodo, di cui abbiamo appena parlato, sono considerati il riferimento più importante, e influenzano quelli a seguire con durate più lunghe. L’andamento dei tassi con durate più lunghe determina quella che è chiamata la curva dei tassi di rendimento che definisce, per ogni scadenza di prestito, il tasso che il mercato prezza attraverso lo scambio di titoli obbligazionari. Per definire tale curva di riferimento vengono utilizzati i rendimenti delle obbligazioni governative a diverse scadenze (1, 2, 5, 7, 10, 30 anni…). La curva dei tassi di rendimento ha normalmente una inclinazione positiva, il che significa che i tassi per i prestiti di durata maggiore saranno più elevati di quelli di breve.

La teoria che cerca di spiegare l’andamento della curva dei tassi di rendimento parte da due assunti. Il primo è che gli investitori sono in grado di sviluppare delle aspettative sull’andamento dei tassi futuri e quindi tenderanno a valutare il rendimento di una obbligazione della durata di X anni sulla base dei tassi di breve (annuali) che si attenderanno per gli anni successivi. Se ad esempio gli investitori si attendono dei tassi di interesse in crescita costante (dell’1% all’anno), a fronte di un tasso annuale del 5% nel primo anno, il tasso riconosciuto a un bond quinquennale potrebbe essere dato dalla seguente formula di calcolo del tasso medio sui cinque anni:

(5% + 6% + 7% + 8% + 9%) / 5= 7%

Questa considerazione non tiene però conto del fatto che investire su un’obbligazione a lungo termine è tendenzialmente meno appetibile, a parità di tasso di interesse annuo, che investire su una a breve termine, quindi deve esistere un “premio per il rischio”, in quanto le obbligazioni a lungo termine sono per definizione più rischiose; qui arriviamo dunque al secondo assunto, che spiega per quale motivo la curva dei tassi è normalmente inclinata verso l’altro: a parità di tasso di interesse annuo atteso, gli investitori preferiscono acquistare obbligazioni a breve durata e pur di averle si accontenteranno di un rendimento annuo inferiore. Tornando all’esempio di cui sopra, un bond quinquennale renderà normalmente un po’ di più del 7%, valore dato dalla media matematica dei rendimenti futuri attesi. Analogamente, se il tasso futuro atteso per i 5 anni successivi fosse costante al 5% (invece che crescente), la stessa obbligazione quinquennale renderebbe comunque di più del 5% (la media del tasso nei 5 anni successivi), perché bisognerebbe appunto remunerare il “premio per il rischio”.

Se si vuole leggere lo stesso fenomeno richiamando implicazioni macroeconomiche si può aggiungere che una maggiore ripidità della curva dei tassi (con aspettative di crescita dei tassi futuri molto elevate) è di solito connaturata con una crescita delle aspettative di crescita economica, e quindi di investimento da parte soprattutto delle aziende, investimenti che avvengono con finanziamenti a lungo termine che fanno crescere la curva dei tassi a lungo (ad esempio il decennale) molto di più rispetto a quelli a breve (normalmente utilizzati dai consumatori per il finanziamento dei propri acquisti).

Arrivando ai giorni nostri, nelle ultime settimane si è vista una costante crescita dei rendimenti di lungo periodo, in modo particolare l’attenzione è stata per il decennale sul titolo governativo USA, che è arrivato nella sera di giovedì 25 febbraio a toccare 1,6%. Un rendimento che non si vedeva dal periodo di febbraio 2020.

La crescita del decennale USA può essere letta in diversi modi: aspettative di ripresa economica e quindi di maggiori investimenti. Tali aspettative sono ulteriormente rafforzate dalla prospettiva di un piano di incentivi fiscali di 1,9 trilioni di dollari che riverseranno questo ammontare direttamente nelle tasche dei consumatori. Ma qui il richiamo automatico è subito all’altro elemento che può aver contribuito alla crescita dei tassi di lungo periodo, e cioè l’inflazione, di cui abbiamo già parlato qui (https://www.dirittofuturo.org/?p=802 ). I timori di inflazione (giusti o sbagliati che siano) sono già nell’aria da diverse settimane, perché se le iniezioni di liquidità delle banche centrali passano dal sistema bancario, che può decidere, come del resto sta facendo da tempo, di non prestare buona parte del denaro che si ritrova nelle proprie riserve, uno stimolo fiscale di tale portata che arriva direttamente ai consumatori rischia di riversarsi direttamente sui prezzi. Ci ritroviamo dunque nella seguente situazione: aspettative di inflazione in crescita, ma tassi di breve a zero e “sotto controllo” in quanto gestiti dalla banca centrale, cosa fanno dunque gli investitori anticipando una ripresa economica? Compreranno i tassi a scadenza più lunga che infatti stanno salendo. Quale potrebbe essere la contromossa della Fed? Ovviamente decidere di controllare anche questi, attuando la cosiddetta YCC (yield curve control). Il controllo della curva dei rendimenti, di cui la Fed parla in realtà da quasi un anno, è una politica monetaria attuata dalla banca centrale volta a controllare non solo i tassi a brevissimo come fa normalmente (ne abbiamo parlato sopra), ma anche le scadenze successive e mantenendo i tassi attorno al limite fissato con acquisti (o vendita) di titoli obbligazionari della durata che si vuole controllare. I casi che vengono citati sono quelli degli USA nel periodo post-bellico (politica durata quasi 10 anni e poi sospesa per l’eccesso di inflazione che aveva creato), quello australiano (che ha avviato dallo scorso anno una politica di controllo dei tassi a 3 anni), ma soprattutto quella del Giappone, che ha inaugurato tale politica di controllo nel 2016, operando sul tasso a 10 anni e mantenendolo vicino allo 0 (ma questa volta senza sortire alcuno degli effetti espansivi auspicati).

Ma per quale motivo la Fed dovrebbe avventurarsi in tale politica, rischiando una ulteriore crescita dell’inflazione a seguito del contenimento dei tassi di interesse che ne scaturirebbe e dell’ulteriore iniezione di liquidità?

Qui subentrano due possibili spiegazioni. La prima è quella che vede la Fed operare una tale politica per evitare che la ripresa economica non venga ostacolata dalla crescita dei tassi a dieci anni che sono anche quelli di cui più usufruiscono le imprese, la medesima ragione che ispirò (seppur in un contesto molto diverso e più drammatico) quanto fatto nel periodo post-bellico. La seconda interpretazione invece ha a che fare con quello che è successo negli ultimi dodici anni proprio a seguito delle politiche monetarie delle banche centrali e riguarda il debito da un lato (quello privato e corporate soprattutto) e il mercato azionario dall’altro.

Riguardo quest’ultimo, bisogna sempre ricordare che nell’analizzare il rapporto prezzi utili delle azioni (e quindi il loro rendimento) è opportuno confrontarli con i tassi di interesse in vigore sul mercato, perché l’investimento azionario è sempre concorrente di un investimento molto più sicuro che è proprio quello in obbligazioni in modo particolare statali. Un paio di settimane fa Nomura aveva evidenziato il fatto che un decennale con un tasso superiore al 1,5% avrebbe potuto mettere fine al rialzo del mercato azionario, dato che la differenza (spread) tra il rendimento delle azioni e quello delle obbligazioni decennali sarebbe stata troppo bassa per giustificare una prosecuzione del rialzo del mercato azionario stesso: secondo i calcoli di Nomura, che ha utilizzato per valutare il rendimento delle azioni il cosiddetto trailing price/earning cioè quello degli ultimi 12 mesi, lo spread di rendimento dell’indice S&P 500 con il decennale è al momento di poco superiore al 1,6%, che è quindi il premio per il rischio nell’investire in azioni su questo indice. Insomma, un investitore si chiede per quale motivo dovrebbe continuare a investire in azioni se il premio per il rischio diventa troppo basso dal momento che il rendimento del tasso di un titolo decennale (molto più sicuro di un investimento in azioni) inizia ad essere interessante. Non è dato sapere se le stime di Nomura siano affidabili (nei medesimi giorni JP Morgan aveva affermato che per il momento non c’era invece nulla di cui preoccuparsi), quello che è certo è che quando nella serata di giovedì 25 febbraio il tasso del titolo decennale ha toccato 1,6%, il mercato azionario ha repentinamente accelerato la sua discesa (già iniziata nei giorni precedenti).

Se l’impatto sul mercato azionario di una prosecuzione del rialzo dei tassi di lungo periodo pare, si spera, chiarito, è parimenti importante considerare il debito, la cui crescita nel 2020 è stata ulteriore. Abbiamo diverse volte parlato (https://www.dirittofuturo.org/wp-content/uploads/2020/07/Rapporto-OSFI-7-Giugno-2020.pdf ) degli effetti delle politiche monetarie delle banche centrali sul debito in questi anni, in modo particolare su quello più a rischio in capo alle aziende private, cosiddette zombie (che per diversi anni hanno accumulato profitti negativi o comunque inferiori al proprio tasso di finanziamento). Ebbene, se il mercato azionario verrebbe sostanzialmente affossato dalla risalita dei tassi, quello del debito, ad alcuni prestatori, rischierebbe di esplodere in mano, dato che il costo di finanziamento sarebbe per loro insostenibile. Ricordiamo che due settimane fa (prima che i tassi sul decennale si impennassero) il debito High Yield, quello contratto da aziende con basso rating, era arrivato ai minimi storici del 4%, molto inferiore alla situazione pre-pandemica.

Insomma, anche il mercato del debito, soprattutto High Yield, sentirebbe di sicuro l’influenza della crescita dei tassi più lunghi, quale quindi miglior ricetta allora se non quella di controllare anche loro con una nuova serie di acquisti mirati? In teoria tutto potrebbe funzionare, sino a che non si riaffaccerà l’inflazione. Al momento la crescita delle aspettative della stessa pare non essere ancora allarmante, è però necessario ricordare che raramente nella storia l’esplosione dell’inflazione è stata prevista con largo anticipo e i fattori che potrebbero “risvegliarla” iniziano ad accumularsi (non ultima l’impennata dei prezzi delle materie prime), se i prezzi dovessero iniziare a salire ben oltre i livelli attesi del 2%, la matassa da districare da parte della Fed diventerebbe davvero complicata e come sappiamo il primo strumento a disposizione di una banca centrale è di tipo “psicologico” ed ha a che fare col fatto che la banca stessa “dia l’impressione” di avere la situazione sotto controllo.

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LA CINA CONTINUA AD ATTRARRE CAPITALI, RECORD DI ACQUISTI DI BOND DALL’ESTERO

Nel 2020 l’afflusso di capitali esteri per l’acquisto di bond cinesi ha raggiunto la cifra record di 186 miliardi di dollari. Sono chiaramente poca cosa rispetto al totale del mercato interno che ammonta a circa 16.000 miliardi di dollari, ma l’apertura della Cina al mercato internazionale dei capitali è ancora all’inizio e la quota di bond cinesi detenuti da stranieri costituisce attualmente poco più del 3,3% della capitalizzazione complessiva del mercato del paese. Ne abbiamo ampiamente parlato qui https://www.dirittofuturo.org/wp-content/uploads/2021/01/OSFI_Scenario_di_finanza_internazionale_n_9_dicembre_2020.pdf 

La strategia della “doppia circolazione” che è stata ufficializzata dal piano quinquennale definito a ottobre dello scorso anno, prevede di riorientare la storica posizione di paese esportatore per concentrarsi maggiormente sui consumi e gli investimenti interni. Pare quindi in linea con questo obiettivo la maggiore apertura ad attrarre capitali sia sotto forma di investimenti diretti, per cui la Cina nel 2020 è stato uno dei pochi paesi con saldo netto positivo (ne abbiamo parlato qui https://www.dirittofuturo.org/?p=765 ) sia di investimenti di portafoglio. È bene evidenziare che l’afflusso di capitali finanziari per acquistare bond è stato sicuramente favorito nell’anno appena passato dall’azzeramento dei tassi di interesse da parte di tutti i paesi maturi (in modo particolare di quelli USA) e pare al momento non risentire della crescita record di default di alcune aziende statali nell’ultima parte dell’anno.

In Cina il movimento di capitali finanziari non è libero, anche se su quelli in ingresso il governo sta lentamente avviandosi ad una crescente apertura all’afflusso di capitali esteri, il che significherà inevitabilmente ridurre la quota destinata agli investitori istituzionali, in modo particolare delle banche che ne detengono il 70% del totale, questo è stato uno dei fattori più limitanti per la crescita della liquidità di questi strumenti (oltre che per la diffusione verso investitori non istituzionali, la quota in mano alla famiglie è di poco superiore all’1% del totale).

Ancora maggiori sono invece le limitazioni (e i controlli) riguardo l’uscita di capitali ed è tuttora in vigore il limite individuale di 50.000 USD di cambio in valuta straniera ogni anno, oltre che le restrizioni per i residenti ad investimenti in titoli esteri E’ tuttavia di questi giorni una dichiarazione ufficiale (https://www.scmp.com/economy/china-economy/article/3122432/china-mulls-allowing-investment-overseas-stocks-insurance ) riguardo il fatto che la Cina stia valutando la possibilità per i privati di investire in titoli esteri (pur nel limite dei 50.000 dollari annui). Se questa sia una mossa temporanea, magari volta a frenare l’impetuosa salita dello yuan rispetto al dollaro, che potrebbe in futuro sfavorire troppo le esportazioni cinesi, non è al momento dato saperlo, è però certo che, come abbiamo ampiamente esposto nel nostro ultimo report, la gestione delle riforme in ambito finanziario è uno degli aspetti più delicati per il suo futuro e di sicuro le mosse, più che guidate da scelte ideologiche, saranno ispirate dal pragmatismo e dalla gradualità a cui questo paese ci ha ormai abituati.

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TASSI A ZERO A TEMPO INDETERMINATO: LA FED SI GIOCA LA CARTA DELL’OCCUPAZIONE

L’inflazione potrebbe salire? Non vi preoccupate, la disoccupazione è ancora elevata, più di quanto ci dicano i dati ufficiali.

In un intervento del 10 febbraio scorso all’Economic Club di New York, Jerome Powell, il Presidente della Federal Reserve USA, ha giocato la carta dell’occupazione per ribadire che, se qualcuno avesse mai avuto dei dubbi, le politiche della Federal Reserve non cambieranno per parecchio tempo.

Con un intervento i cui toni non erano attesi, ha affermato che il dato del 6,3% di disoccupazione rilevata è poco realistico e nel paese mancano ancora 10 milioni di posti di lavoro rispetto al periodo precedente la pandemia e la Federal Reserve non cambierà le sue politiche monetarie sino a che il gap non sarà recuperato.

La cosiddetta forward guidance è lo strumento che consiste nell’uso della comunicazione, in contesti che possono essere più o meno formali, per influenzare le aspettative dei mercati ed è diventato sempre più d’uso anche da parte della BCE che dal 2013 lo ha reso esplicito con dichiarazioni puntuali sulle tempistiche dei suoi interventi (sia sui tassi di interesse sia sulle politiche di acquisto titoli).

A fronte dei timori crescenti di inflazione, giustificati o meno che siano (ne abbiamo parlato in un post di pochi giorni fa che trovate qui https://www.dirittofuturo.org/?p=802 ), la Federal Reserve mette le mani avanti e, più o meno esplicitamente, precisa che, anche qualora l’inflazione  dovesse salire, rimane comunque da colmare un grosso gap occupazionale che non viene sufficientemente apprezzato guadando al solo dato della disoccupazione in calo al 6,3% (che era comunque al 3,5% prima della pandemia).

A chiarire quali siano le attese dei “mercati”, l’analisi dei Future sui Fed Fund Rate (contratti derivati sull’andamento dei tassi di interesse interbancari) stima solo un 9% di probabilità di rialzo dei tassi prima della fine dell’anno, la trovate qui https://www.cmegroup.com/trading/interest-rates/countdown-to-fomc.html?redirect=/trading/interest-rates/fed-funds.html%C2%A0%C2%A0.

Insomma, sin qui tutto bene, o quasi…

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LE DISEGUAGLIANZE SONO IN CRESCITA COSTANTE DA QUARANT’ANNI

Nel grafico che qui alleghiamo è mostrata l’evoluzione del reddito lordo in USA dal 1978 al 2019 per due distinte fasce di popolazione. In rosso il 50% con il reddito più basso e in azzurro l’1% con il reddito più elevato. Se nel 1978 la prima categoria percepiva il 20,2% del reddito complessivo del paese, nello stesso anno l’1% con reddito più elevato ne percepiva “appena” una quota del 10,3%. Come si può vedere la tendenza negli anni successivi è stata di una continua diminuzione della quota di reddito guadagnata dal 50% più povero e un aumento di quella nelle mani dell’1% con reddito più elevato. Nel 2019, ultimo anno di questa rilevazione, le due curve si erano invertite e i percettori nella fascia del 50% dei redditi più bassi si ritrovavano con il 13,5% del totale (era il 20,2%), mentre l’1% più abbiente guadagnava il 18,7% del reddito complessivo (era il 10,3%).

Il fenomeno non è diverso se si passa dall’osservazione del reddito a quella della distribuzione del patrimonio (finanziario ed immobiliare). Con questo obiettivo abbiamo confrontato il 50% della popolazione con un patrimonio più basso e l’1% con un patrimonio più elevato, ottenendo risultati simili, ma ancora più marcati.

Se nel 1978 il 50% con meno patrimonio ne possedeva solo il 2,3% del totale, la fascia dell’1% più elevata possedeva invece il 21,5% della ricchezza complessiva. Questa già elevata concentrazione di ricchezza è ulteriormente cresciuta negli anni e se nel 2019 il 50% con patrimonio più basso si ritrovava solo con l’1,5% della ricchezza complessiva del paese (era il 2,3%), l’1% più ricco era arrivato a possederne il 34,9% (era il 21,5%).

La crescita delle diseguaglianze, che si era invece invertita dal secondo dopoguerra sino al finire degli anni ’70, non ha risparmiato alcun paese (anche se negli USA, che qui abbiamo preso ad esempio, è stata più marcata che altrove) ed è stata favorita da diversi fattori. Sicuramente è opportuno menzionare l’evoluzione del sistema fiscale (con una pesante riduzione delle imposte dirette per i redditi più elevati) e l’indebolimento del potere contrattuale dei sindacati nei paesi occidentali. Il fenomeno della globalizzazione pare invece avere avuto un esito più ambivalente. Se nei paesi occidentali ha contribuito all’indebolimento del potere di acquisto dei redditi più bassi (parimenti con l’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori), meno univoco in tal senso è invece l’effetto sui paesi emergenti, che in alcuni casi possono avere invece beneficiato del fenomeno, con una crescita della condizione generale della popolazione (si guardino ad esempio la Cina e l’India).

Se è intuitivo il fatto che la crescita delle differenze di reddito abbia influenzato anche la crescita di quelle riguardanti il patrimonio nel medesimo arco di tempo, un ulteriore elemento da considerare è la crescita della dimensione finanziaria dell’economia, che non ha risparmiato alcun paese, ed ha sicuramente esacerbato il fenomeno che possiamo sintetizzare in questo modo: le ricchezze accumulate non vengono reimmesse nel sistema sotto forma di consumi o investimenti, ma rimangono in buona misura investite in rendite o speculazioni finanziarie che tendono ad accrescere maggiormente i patrimoni più grandi, che sono anche quelli che hanno maggiori possibilità di investimento sia in termini quantitativi, sia qualitativi. Le politiche delle banche centrali si sono ritrovate infine, dal 2009 ad oggi, ad iniettare liquidità senza grossi risultati sulla crescita, ma con l’unico obiettivo, per ora raggiunto, di non far collassare il sistema finanziario stesso sotto una montagna di debito spesso veicolato verso forme di investimento finanziario ed improduttivo.

È bene ricordare che l’analisi che qui abbiamo proposto si ferma al 2019, anno precedente la pandemia, che tali diseguaglianze (sono ormai concordi su questo anche tutte le principali istituzioni finanziarie mondiali, incluso il FMI) hanno ulteriormente accresciuto.

La fonte dei dati qui utilizzati è il “World inequality database”, a cui potete accedere utilizzando questo link.

https://wid.world/

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