Martedì 3 agosto si è tenuta l’ultima riunione della Banca Centrale australiana (RBA, Reserve Bank of Australia). Il board ha confermato per il momento i tassi di interesse allo 0,1%. Se si guarda allo scenario dei tassi di interesse definiti dalle altre banche centrali dei paesi maturi, non si vede in questo nulla di nuovo. Dal marzo del 2020 tutte le banche hanno portato i tassi sostanzialmente a 0, o negativi. Tuttavia, per chi negli anni ha seguito l’andamento del mercato valutario e in generale dei tassi di interesse e non è ancora assuefatto alla “giapponesizzazione” delle politiche monetarie, questo numero non può non colpire.
Il dollaro australiano, infatti, è sempre stata la valuta, tra quelle dei paesi maturi, i cui depositi hanno storicamente fornito tassi più elevati. Tra i motivi ci sono sicuramente quelli legati al peso sulla sua economia del settore delle materie prime (di cui consiste oltre il 70% delle sue esportazioni) oltre che una posizione finanziaria verso l’estero costantemente negativa, fattori questi che hanno sempre reso quella australiana una economia fortemente ciclica e quindi, in sé, più rischiosa delle altre, e costretta quindi a pagare interessi più elevati sul proprio debito.
Persino nel periodo successivo alla grande crisi finanziaria del 2008 i tassi australiani non scesero mai al di sotto del 2,5%, quando anche quelli degli USA (per non dire di Europa e Giappone) erano scesi a zero. Come mostrato nella figura qui sotto, dagli anni ’90 avevano sempre oscillato tra il 5 e il 7%.
Che quindi l’Australia si possa permettere oggi di pagare interessi così bassi è la miglior cartina tornasole per comprendere il processo che è stato avviato dal 2008 ad oggi e che ha raggiunto il parossismo nell’ultimo anno e mezzo. I tassi di interesse sono una rappresentazione del rischio che ci si assume nel detenere una certa valuta (e di conseguenza un determinato debito in essa denominato o in capo al paese che emette quella valuta), oggi, ad osservare i tassi delle principali economie mondiali, di cui forniamo una sintesi qui sotto, parrebbe che il rischio sia scomparso ovunque, al netto delle cosiddette economie emergenti e della Cina che ancora pagano interessi superiori all’1% (con il picco della Turchia che è costretta ad arrivare al 19%) .
La causa scatenante di questo fenomeno, ne abbiamo scritto diverse volte, non è l’epidemia di covid che ha solamente accelerato un processo in divenire da diversi anni, ed almeno dal 2008. Difficile dire per quanto possa durare questa “eclissi del rischio” nella finanza internazionale, che riguarda a maggior ragione il debito privato anche nelle sue forme più “teoricamente” rischiose, cosiddette high yield. Difficile altrettanto dire se siamo arrivati al punto in cui sia ormai troppo tardi per poter “scoprire le carte” e andare a vedere la reale portata di questo rischio, troppo tardi senza evitare conseguenze che potrebbero essere sistemiche. È anche per questo che la parola chiave sta diventando: “exit strategy”. Ci si chiede sempre più pressantemente se esista una strategia di uscita da questa situazione, ma sarebbe anche opportuno chiedersi se qualcuno ci ha davvero pensato. Se così non fosse, è probabile che il ritorno alla “normalità” possa non essere graduale.
Pur mantenendo come obiettivo quello di un’inflazione al 2%, la Bce adotterà una strategia “simmetrica” in cui sia gli scostamenti superiori sia quelli inferiori saranno considerati ugualmente inopportuni. Questo si discosta dalla strategia precedente in cui l’attenzione maggiore veniva rivolta ad eventuali rialzi sopra la soglia più di quanto non avvenisse per i periodi in cui l’inflazione era inferiore. Se nei fatti negli ultimi anni questo approccio era stato lentamente rivisto, dato che l’inflazione ha quasi sempre stazionato al di sotto del livello del 2%, è importante notare come questo aspetto sia stato formalizzato e come nello stesso tempo sia stata chiarita la volontà di aggredire le eventuali discese sotto l’obiettivo in maniera maggiore di quanto fatto sino ad ora con strumenti, si dice, che essendo difficile portare i tassi di interesse negativi oltre una certa soglia, non potranno che essere quelli di una politica effettuata tramite acquisti di titoli e operazioni di rifinanziamento.
Tali operazioni, evidenzia la Bce, potrebbero portare l’inflazione a stazionare “per un periodo transitorio” sopra il livello atteso del 2%. Se nella dichiarazione della Bce non viene specificato quale sia tale periodo, in modo da permettere alla Banca una certa flessibilità di gestione, a seguito dell’ultima riunione del Board della Banca del 22 luglio, le dichiarazioni di Christine Lagarde, hanno dato alcune indicazioni in proposito.
La Bce non modificherà i tassi sino a che l’inflazione non raggiungerà l’obiettivo del 2% con un certo anticipo (“well ahead”) rispetto alla fine dell’orizzonte temporale delle sue previsioni economiche. Interrogata in conferenza stampa su cosa significasse “well ahead”, Lagarde ha dato come indicazione “il punto di mezzo”. Ciò significa che se le proiezioni temporali della Bce sono di 3 anni, un intervento di politica monetaria ci potrà essere solo se l’obiettivo del 2% fosse raggiunto già un anno e mezzo prima del termine di tale proiezione. Ma quali sono le proiezioni economiche che la Bce ha aggiornato nell’ultima riunione? Se il PIL viene visto a rialzo del 4,7% nel 2021 e del 4,6% nel 2022 (migliorativo rispetto alle precedenti previsioni del 4,2% e 4,1%), l’inflazione complessiva (a cui si riferisce la strategia del 2%) è vista all’1,9% quest’anno e del 1,5% il prossimo.
Coerentemente la Bce non ha modificato la politica dei tassi e confermato una prosecuzione degli acquisti di titoli al passo attuale.
Potete trovare qui una sintesi, rispettivamente, delle manovre di politica monetaria riguardo i tassi di interesse e l’acquisto titoli e prestiti della Bce:
Tra gli altri contenuti della nuova strategia della Banca è da notare anche la dichiarazione sull’opportunità di valutare, nella considerazione del reale impatto sulle famiglie, anche quello dei prezzi delle case occupate dai proprietari, che sono al momento esclusi dall’indice armonizzato dei prezzi al consumo (IAPC) con cui viene valutata l’inflazione. Se tale obiettivo non può che avere un orizzonte pluriennale, “nelle proprie valutazioni di politica monetaria il Consiglio direttivo terrà conto, nel frattempo, di misure dell’inflazione che comprendono stime iniziali di tali costi nell’insieme più ampio di ulteriori indicatori dell’inflazione di cui si avvale”.
In sintesi, se nel breve periodo la riunione della BCE non ha portato grosse novità dal punto di vista operativo, di certo la nuova “forward guidance”, si dimostra più aggressiva della precedente (soprattutto se letta insieme alla nuova strategia adottata dall’8 luglio) e foriera di stazionamenti su livelli di inflazione relativamente più elevati rispetto a quanto previsto prima senza che la Banca si senta in dovere di effettuare strette monetarie (Lagarde non ha specificato valori, ma si può stimare che nulla succederebbe sino ad una inflazione complessiva al 2,5%). Una situazione questa che difficilmente porterebbe a un clima di unanimità all’interno del board, data la ritrosia di molti paesi ad accettare escursioni eccessive dei prezzi. Unanimità, del resto, che già nella presente ricalibrazione della forward guidance, ha dichiarato Lagarde, il board non è riuscito a raggiungere.
Il dato sull’inflazione USA di giovedì scorso (al 5%, superiore al 4,2% del mese precedente), oltre che più elevato delle previsioni degli analisti è stato anche il record di salita dei prezzi dal 2008. Rilevante anche il dato dell’inflazione core (depurata dei prezzi per beni alimentari ed energia) che dal 3% è passato al 3,8%.
I numeri in sé vanno ben al di là di quanto a inizio anno si potesse prevedere. È importante ricordare che il tasso di riferimento della Federal Reserve sull’inflazione è del 2%, sebbene questo sia ormai un dato considerato medio e per il quale non è stata specificata la durata di tale media, lasciando quindi alla Banca Centrale notevole libertà di movimento. Se al momento la Federal Reserve ha smentito ogni ipotesi di modifica in tempi rapidi delle sue politiche monetarie, sarà però fondamentale capire quanto durerà una tale inflazione, infatti se la progressiva riduzione delle iniezioni di liquidità (il cosiddetto tapering) è data per scontata, lo stesso non si può dire per la modifica della politica de tassi di interesse.
riteniamo che un tasso di inflazione costantemente superiore al 3% sino a fine anno potrebbe costringere la Fed ad intervenire prima del tempo, e cioè prima del 2024, al momento visto come l’anno in cui i tassi dovrebbero ricominciare a salire. Una data molto lontana e sino alla quale i mercati finanziari e gli operatori economici si attendono (e sperano) che i tassi continueranno ad essere a zero.
È pur vero che se un picco di inflazione era atteso (almeno dall’agosto 2020, quando la Fed modificò saggiamente la propria politica sull’inflazione portandola ad un target medio) i numeri che ci si trova di fronte potrebbero far pensare quanto meno a una forte preoccupazione, perché questi, non c’è dubbio, sono ben superiori a quanto immaginato sino a pochi mesi fa. Invece, analizzando tutti gli asset che potrebbero essere influenzati dall’inflazione stessa (e dalle sue attese), nulla è successo nell’ultimo mese, ed è indicativa la reazione che hanno avuto tali asset nella giornata di giovedì, di fronte a un dato che non si vedeva dal 2008.
Il cambio tra euro e dollaro: nella logica puramente economica l’inflazione dovrebbe essere un fattore di debolezza per una valuta ed un delta di inflazione del 3% (quello dell’eurozona è al momento al 2% a fronte del 5% in USA) dovrebbe essere in sé un fattore di forza della valuta con meno inflazione, quindi dell’euro. Nella realtà il cambio tra euro e dollaro (come quello di tutti i cambi valutari) è negli ultimi anni sempre stato mosso, nel breve periodo, da fattori affatto diversi, che si chiamano aspettative delle mosse delle banche centrali. Quindi, le reazioni dei cambi valutari hanno sempre visto un immediato rafforzamento della valuta a fronte di dati di inflazione molto alti. La spiegazione è che se sale l’inflazione i mercati si attendono un intervento delle banche centrali con un aumento dei tassi di interesse e di riduzione delle politiche di espansione monetaria. L’aumento dei tassi di interesse è un fattore di forza per la valuta e questo prevale, almeno nel breve periodo, sul dato di inflazione che tenderebbe a indebolirla. La risposta di giovedì del cambio tra euro e dollaro è stata di un rafforzamento del primo, movimento che peraltro ha confermato la forza dell’euro che dura ormai da alcuni mesi (nonostante i dati sull’inflazione USA in costante crescita rispetto a quelli europei). Il motivo di questa anomalia (rispetto a quanto normalmente accade nel mercato dei cambi come abbiamo appena detto) è molto semplice: per il momento il mercato non crede che l’inflazione salirà ancora per molto e soprattutto ritiene che i numeri attuali non saranno sufficienti a far cambiare idea alla Federal Reserve.
Questa interpretazione è confermata dall’analisi del mercato dei tassi di interesse: il rendimento del decennale USA, dai massimi di marzo (quando più forte si era sentito il timore per quello che sta succedendo ora), ha ricominciato a scendere e dal picco che aveva toccato (quasi 1,8%) si trova ora ad 1,45% e la discesa è continuata anche della giornata di giovedì, di fronte a un dato di inflazione senza precedenti in tempi recenti. Anche il mercato azionario, che più di tutti dovrebbe temere una eventuale stretta monetaria, non ha minimamente risentito del dato ed ha continuato a fare nuovi massimi, sia giovedì, sia il giorno successivo.
Pare chiaro che il pensiero comune al momento sia che l’inflazione si fermerà presto, sia sul fronte della crescita dei prezzi delle materie prime, sia dei prezzi al consumo, dopo la corsa agli acquisti e alle “cene fuori” dovute all’euforia post pandemica e alla liquidità iniettata direttamente alle famiglie dal piano Biden di 1,9 trilioni di dollari. Nello stesso tempo tutti sono convinti che la Federal Reserve nulla farà sul fronte tassi e, se l’inflazione dovesse fermarsi, potrà dire di aver vinto la sua scommessa. Perché di scommessa si tratta, dato che una inflazione che perdura ben oltre l’autunno a questi ritmi o, ancora peggio, che continua a crescere, è qualcosa che, lo abbiamo detto, la Fed non si può permettere e lo scenario di una banca centrale costretta a modificare le sue politiche a causa di una inflazione eccessiva, ne abbiamo scritto parecchio, non è propriamente ciò che in questo momento ci si deve auspicare.
Nell’ultimo anno lo yuan cinese (o renminbi) si è rafforzato rispetto al dollaro di oltre il 10%. Se questo da un lato è dovuto a una generale debolezza della valuta USA, lo yuan nel medesimo periodo si è però rafforzato anche verso quasi tutte le principali divise (inclusi l’euro e lo yen giapponese). Il fenomeno può essere letto, tra le altre cose, come lo specchio della forza relativa dell’economia del paese rispetto al resto del mondo dovuta alla forte e anticipata ripresa avvenuta a seguito della pandemia.
Negli ultimi giorni il tema ha sollevato un dibattito molto acceso all’interno della Banca Centrale del paese riguardo la flessibilità del cambio, riportato in questo articolo.
La discussione ha fatto seguito ad un post del direttore dell’istituto di ricerca finanziaria della Banca, che vedeva di buon occhio la crescita dello yuan anche per contenere l’inflazione e auspicava nello stesso tempo che la Cina si orientasse verso un regime di cambi completamente flessibili, per poter accrescere il ruolo della propria valuta nel mondo, anche a costo di un suo apprezzamento. Al post (che è stato ora rimosso) ha fatto seguito una risposta ufficiale da parte del vicegovernatore della stessa Banca, Liu Guoqiang, che ha affermato che il cambio del paese è già flessibile ed è definito dalle leggi di domanda e offerta. È però necessario, ha detto, evitare le speculazioni sulle oscillazioni giornaliere della valuta il cui prezzo in ogni caso è definito dal mercato. Il cambio tra lo Yuan e il dollaro (e di conseguenza verso le altre valute) è ora effettivamente flessibile, però esiste un limite giornaliero di oscillazione del 2% che è fissato rispetto a un valore di riferimento, a questo evidentemente si riferiva il vicegovernatore.
Nello stesso tempo Liu Guoqiang ha criticato la manipolazione valutaria volta ad indebolire una valuta per favorire le esportazioni del paese, quando queste sono deboli o a rafforzarla quando i prezzi esterni sono in salita.
Questo ultimo punto, quello della manipolazione valutaria, è stato per anni molto dibattuto, a causa delle accuse alla Cina, soprattutto degli USA, di influenzare il cambio per evitarne l’eccessivo apprezzamento in modo da favorire i propri prodotti. Nei fatti negli ultimi anni è dal 2015 che la Banca cinese non interviene in maniera ufficiale sul cambio che, come detto, è libero di muoversi pur con un limite alle oscillazioni giornaliere. Il dibattito in corso però, ci pare tutto sommato fuorviante, se legato alla ricerca delle spiegazioni per cui la diffusione dello yuan è ancora limitata (nel mondo poco più del 2% delle transazioni commerciali avvengono in yuan e simile è la quota delle riserve mondiali in questa valuta). Per comprendere le vere ragioni di questo è importante sapere che lo yuan utilizzato all’estero (cosiddetto offshore con sigla CNH) non è in realtà sottoposto a limiti di oscillazione giornaliera come quello utilizzato all’interno del paese (onshore con sigla CNY). Dal 2009 è infatti in circolazione una valuta parallela a quella domestica che può essere utilizzata solo all’estero e il cui mercato principale di scambio è Hong Kong. Nei fatti, comunque, anche lo yuan offshore è influenzato da quello onshore, non potrebbe essere diversamente, anche perché una buona parte del mercato è mosso dalle stesse banche cinesi.
La realtà è che il tema centrale non sono tanto le limitazioni ancora in corso alla banda di oscillazione giornaliera quanto piuttosto, da un lato la fiducia del mercato nella volontà della Cina di non intervenire sul cambio con manipolazioni più o meno ufficiali della valuta influenzandone e controllandone di fatto il prezzo, ma questo lo potremo vedere solo in futuro, la fiducia si conquista col tempo. Ancora però non siamo a nostro parere al centro del problema, e se vogliamo dirla tutta, un paese come la Svizzera (detentrice di una valuta di tutto rispetto e considerata uno dei principali asset rifugio) negli anni passati ha fatto cose ben peggiori di quelle che si potrebbero attribuire alla Cina.
Non è un caso che il centro del problema non sia stato nemmeno toccato nel dibattito che abbiamo riportato e si chiama libertà del movimento dei capitali. Questa sola potrebbe essere una vera svolta nella possibilità di diffusione a livello internazionale della valuta cinese. La soluzione dell’utilizzo dello yuan offshore è chiaramente una soluzione ponte (gli stessi dirigenti cinesi ne sono consapevoli) e la quantità di yuan offshore in circolazione è molto limitata (meno dell’1% di quelli onshore e il 2% del PIL del paese) gli altri yuan possono essere utilizzati solo all’interno della Cina ed è difficile che operatori esteri accettino di detenere in grandi quantità una valuta che possono utilizzare solo per scambiare con la Cina. Anche riguardo gli scambi commerciali con la Cina stessa al momento solo il 20% viene effettuato in yuan, gli altri sono fatti in altre valute (principalmente dollari).
Il tema del controllo dei capitali è però un tema tanto centrale quanto delicato. Al momento esistono limiti di 50.000 dollari a persona per far uscire capitali dal paese, fuoriuscite maggiori sono sottoposte ad autorizzazione governativa e la stessa cosa vale per gli investimenti finanziari dall’estero a cui solo alcuni operatori sono autorizzati. Del resto, la scelta di liberalizzare i capitali non può essere fatta a cuor leggero, dato che impatterebbe su una struttura finanziaria probabilmente non ancora pronta (in primis il sistema bancario) a reggere la concorrenza all’attrattività degli investimenti internazionali e un sistema economico a gestione ancora in parte centralizzata ed impegnato ora a far crescere il tenore di vita della classe media, che potrebbe essere impattato da una eventuale instabilità finanziaria nel caso di turbolenze globali.
Insomma, ci pare che le intenzioni del governo cinese di arrivare ad affrontare il nocciolo della questione siano ancora lontane dal realizzarsi, ma non è detto che queste siano le intenzioni per il momento, anzi, pensiamo esattamente il contrario, la Cina non ha alcuna fretta su questo fronte.
Per approfondire il tema del sistema finanziario della Cina della sua valuta vi rimandiamo a questo nostro report.
Nell’ultimo report del nostro Osservatorio di Finanza Internazionale avevamo stimato il 3% come il valore limite di inflazione che a nostro parere poteva essere accettato dalla Federal Reserve senza modificare la strategia di politica monetaria che, stando alle ultime dichiarazioni di intenti del FOMC, dovrebbe per ora escludere rialzi dei tassi sino a tutto il 2023.
Il dato di ieri, molto atteso, che la prevedeva al 2,3%, ha rilevato proprio il valore (anno su anno) del 3% riguardo l’inflazione core (cioè quella depurata degli elementi più volatili come gli alimentari e l’energia), numeri che non si vedevano dai primi anni ’90. Se il dato è in sé significativo, per il momento non pare ancora sufficiente a modificare le politiche monetarie della Banca Centrale USA che già nell’agosto del 2020 si era preventivamente “premunita” da possibili escursioni “temporanee” dei prezzi del periodo post-pandemico, modificando il proprio target di rialzo dei prezzi da fisso a medio. Ne avevamo già parlato qui:
In pratica, la Fed si dice ora disponibile ad accettare escursioni temporanee dei prezzi superiori al 2%, dato che la sua valutazione verrà effettuata sulla media e non su valori puntuali come quelli che si sono registrati ora e che potrebbero continuare ancora per un po’ al di sopra del target stesso. È bene comunque ricordare che il target del 2% utilizzato dalla Fed non si riferisce all’indicatore i cui dati sono stati rilasciati ieri, cioè il CPI (consumer price index), ma al PCE (personal consumption expenditure cioè spese di consumo personale) che per il modo in cui è calcolato è generalmente un po’ più basso e il cui dato sarà rilasciato a fine mese.
Se avevamo già all’epoca sottolineato l’importanza del cambio di strategia della Fed riguardo l’inflazione e che ciò sarebbe tornato molto utile nel prevedibile futuro, quel futuro può dirsi ora arrivato. Allora la Fed non indicò il reale significato del concetto di inflazione “media” e questo le permette adesso di poter agire con maggiore libertà senza sentirsi ancora vincolata ad alcuna mossa nel futuro più prossimo. È evidente però che quello che la Federal Reserve non può permettere è che la salita dei prezzi sopra il 3% si protragga troppo a lungo e che soprattutto sfugga di mano. Se ciò avvenisse le mosse inevitabili sarebbero prima una rapida riduzione degli acquisti di titoli (quantitative easing) che stanno continuando al ritmo di 120 miliardi al mese e poi un anticipo della risalita dei tassi rispetto al finora previsto 2024. Tenere d’occhio l’inflazione diventa quindi da ora in poi sempre più importante, sia per chi tiene al destino del mercato azionario, ma soprattutto avendo in mente la massa di debito a grosso rischio (high yield) che in questi anni è stato contratto da aziende che solo grazie ai tassi bassi sono riuscite in questo ultimo anno a rimanere in piedi.
Per un approfondimento di questi temi e dei possibili scenari di quest’anno legati all’inflazione potete fare riferimento al nostro ultimo report qui:
Se nel valutare l’effetto della pandemia sul mercato degli immobili ci si limitasse a prendere in considerazione quelli residenziali, nulla sembrerebbe successo, anzi, guardando sia all’Europa, sia in particolare agli USA, i prezzi medi delle abitazioni hanno continuato a salire nel 2020. Come mostrato nei grafici qui sotto i prezzi in Europa sono mediamente aumentati del 5%, seppur è importante notare le differenze tra paesi, con prezzi sostanzialmente stabili in alcuni casi (come Italia e Spagna) e altri che continuano nella salita degli anni precedenti intorno al 10% (come Germania e Olanda).
Ancora più marcato il trend dei prezzi in USA in cui si è tornati ad una salita del 10% annuo, incrementi che non si vedevano dal 2014, accompagnati peraltro da un picco anche nella vendita di nuove case.
Ben diversa invece la situazione che offre il settore degli immobili commerciali che è stato oggetto di analisi da parte dell’ultimo report di stabilità finanziaria globale del FMI.
Come mostrato nel grafico qui sotto, se i prezzi degli immobili industriali non hanno risentito della pandemia in Europa e USA, l’effetto su quelli adibiti ad ufficio e soprattutto quelli relativi alla vendita al dettaglio è stato sin qui piuttosto pesante, con cali dei prezzi, per questi ultimi, tra il 25% e il 20%.
Meno marcati per ora gli effetti sui prezzi degli immobili adibiti ad ufficio (che se in USA sono scesi poco meno del 10%, in Europa sono rimasti sostanzialmente stabili).
Oltre che sui prezzi l’effetto è stato ancor più marcato sul numero di compravendite e in questo caso ha riguardato tutti i settori e aree geografiche, come mostrato nella figura qui sotto, con cali del numero di transazioni nel settore turistico (Hotel) e retail (vendita al dettaglio) che ha raggiunto in alcune parti del mondo picchi tra il 60% e l’80%.
Difficile dire se tale tendenza sia destinata a rientrare al termine della pandemia, anche se tutte le informazioni che sin qui sono state raccolte riguardo il ricorso allo smart working e le intenzioni delle aziende in proposito da un lato e sulla crisi degli esercizi di vendita al dettaglio dall’altro, fanno pensare che l’epidemia di covid più che aver definito una soluzione di continuità rispetto al passato, abbia accelerato una tendenza, che riguarda le abitudini di acquisto e le modalità di lavoro, che era in divenire già prima e destinata a non interrompersi in seguito.
Tra i temi oggetto di analisi del report del FMI c’è però anche quello immediato sull’economia a seguito di una crisi debitoria che potrebbe derivare da un calo così marcato dei prezzi. Nel grafico qui sotto è mostrato l’andamento dei tassi di insolvenza (delinquency rate), quindi di ritardi nei pagamenti, riguardo il debito contratto per l’acquisto di immobili commerciali in USA, sia sotto forma di prestiti, sia di MBS (mortgage backed securities). Come si può vedere i tassi di insolvenza nel 2020 hanno superato i picchi del 2009 (che erano seguiti alla crisi dei mutui subprime).
I Mortgage Backed Security (MBS) sono titoli di debito emessi dalle banche per finanziarsi rivendendo i mutui ed immettendoli sul mercato sotto forma di titoli obbligazionari. Avendo come collaterale di garanzia i mutui stessi contratti dai clienti per acquistare immobili (commerciali in questo caso), se le rate non vengono pagate ciò impatta sul pagamento delle cedole degli MBS stessi. Il calo dei prezzi degli immobili, soprattutto, limita per le banche la possibilità di recuperare il denaro rispetto a colui che ha contratto il prestito e che si dimostrasse in ultima istanza impossibilitato a pagare. Il meccanismo è il medesimo che avviò la crisi dei mutui subprime (che riguardò però in buona misura gli immobili residenziali).
L’esposizione delle banche verso questo tipo di prestiti varia molto da paese a paese e può essere apprezzata nell’ultimo grafico qui sotto; in alcuni casi arriva a superare il 50% del totale dei prestiti del settore bancario alle imprese.
Il rapporto sulla stabilità finanziaria globale del FMI relativo al primo trimestre dell’anno evidenzia tra le altre cose alcuni degli effetti dell’epidemia di Covid 19 sul settore del debito delle aziende (corporate).
È interessante notare come se la situazione debitoria del settore rispetto al PIL sia ovviamente cresciuta (sia a causa della riduzione del PIL, sia della crescita del debito, come mostrato nella figura qui sotto), andando a creare condizioni che potrebbero mettere in pericolo la ripresa economica, d’altro canto lo scenario di rischio è piuttosto frastagliato a seconda del settore merceologico e della dimensione aziendale.
Se il 2020 è stato anche l’anno in cui si è raggiunto il picco nell’emissione di bond high yield e di default tra le medesime tipologie di aziende (in particolare in USA), quest’ultima tendenza, secondo il FMI, pare comunque inferiore ai timori iniziali e in miglioramento negli ultimi mesi.
Nello stesso tempo, tra le medesime aziende a basso rating è nel complesso migliorata la disponibilità di liquidità in rapporto al debito, molto probabilmente a seguito della maggiore facilità di credito favorita dalle politiche delle banche centrali e dal ricorso alle quotazioni in borsa che hanno raggiunto livelli record, specie in Nord America dove, dall’inizio della pandemia, sono state effettuate la metà delle IPO del pianeta.
È pur vero che tale accesso al credito e alla liquidità non è stato affatto uniforme, tanto che andando ad individuare le aziende in situazione di elevato stress di solvibilità (che evidenzia la mole di debito rispetto agli asset aziendali e la previsione circa la capacità dell’azienda di ripagare i debiti nel futuro) si nota una elevata differenza tra settori, ma soprattutto tra aziende di grandi, medie e piccole dimensioni, con queste ultime in evidente maggiore difficoltà rispetto alle prime e costrette quindi a ricorrere soprattutto al sostegno delle politiche dei governi più che al credito bancario. I settori più colpiti sono quelli energetico, servizi, trasporti e immobiliare.
Come abbiamo già detto, tra gli altri, nel nostro ultimo report https://www.dirittofuturo.org/wp-content/uploads/2021/04/Rapporto-OSFI-10-Marzo-2021.pdf i livelli di indebitamento raggiunti, come paiono confermare i numeri sopra mostrati, non sembrano permettere ora passi falsi da parte delle banche centrali. L’incognita principale (oltre ovviamente alla conferma del rimbalzo economico previsto) è che eventuali deviazioni dalle attuali politiche monetarie (che sino ad ora hanno permesso che la situazione non precipitasse), qualora ci fossero, sarebbero dovute molto probabilmente, più che ad errori nella politica monetaria, alla pressione al rialzo di una variabile economica, l’andamento dell’inflazione che, negli ultimi anni, ha mostrato di rispondere a logiche che le teorie più accreditate spesso non paiono essere state in grado di spiegare né, tanto meno, le banche centrali, di gestire nella direzione desiderata.
Il fondo monetario internazionale ha aggiornato i dati sulla composizione ufficiale delle riserve valutarie (COFER) relative all’ultimo trimestre del 2020. Come mostrato in figura la componente delle riserve valutarie in dollari, ora al 59% (era al 60,5% nel precedente trimestre), è in calo da alcuni anni, ma comunque superiore ai minimi del 1991 (quando queste erano scese sotto il 50%).
Che cosa è la riserva valutaria di una banca centrale?
Essa è una delle componenti degli attivi della banca ed è costituita da depositi o titoli in valuta estera. L’accumulo di riserve valutarie può essere visto come una forma di garanzia che le banche detengono per poter finanziare, quando necessario, il deficit delle partite correnti, oppure per difendere il proprio cambio che eventualmente si apprezza o si deprezza troppo (rispettivamente accrescendole o riducendole).
Le riserve valutarie saranno influenzate dagli scambi con l’estero: se gli scambi con l’estero sono in attivo (ad esempio si esporta e si ricevono flussi di reddito dall’estero più di quanti ne escano e di quanto si importi) le riserve tenderanno a crescere, viceversa se il paese è in deficit le riserve tenderanno a diminuire. È evidente quindi che ogni paese tenderà a detenere una proporzione tra valute estere funzione della diffusione di quelle valute negli scambi internazionali (e come abbiamo visto al momento la quota di dollari nelle riserve è del 59%).
Possiamo vedere la crescita o la diminuzione della valuta di riserva detenuta da un paese come il risultato di almeno due fattori: il primo sono i flussi di denaro che derivano dagli scambi commerciali o di reddito con l’estero il cui debito non viene finanziato dai privati e diventa quindi valuta di riserva, il secondo è la dimensione dell’economia di un paese.
Riguardo il primo fattore facciamo questo esempio: se un paese importa dei beni (ad esempio gli USA) dal Giappone, il denaro che l’azienda giapponese incasserà (in dollari) potrà essere depositato presso una banca USA, oppure potrà essere rimpatriato e cambiato in Yen. Nel primo caso il denaro diventerà un debito della banca USA verso un privato giapponese, nel secondo caso invece la banca centrale giapponese incasserà dollari (accrescendo le sue riserve valutarie) e pagherà all’esportatore giapponese yen. Mentre nel primo caso l’indebitamento USA è cresciuto sotto forma di un debito verso un privato (l’esportatore che ha lasciato il denaro presso una banca in USA), nel secondo invece il debito sarà cresciuto sotto la forma dell’aumento delle riserve valutarie (in dollari) della banca giapponese (che ugualmente depositerà i dollari in una banca USA, ma saranno denominati come riserve). Tendenzialmente, quindi, un paese esportatore potrà con più facilità veder crescere le sue riserve in valuta estera, e viceversa per un paese importatore.
Riguardo il secondo fattore, se consideriamo che la valuta di riserva è una sorta di “garanzia” per poter finanziare le proprie importazioni e per difendere il proprio cambio, va da sé che una crescita dell’economia del paese (e quindi delle sue importazioni) implicherà un prudenziale crescente accumulo di riserve. Lo stesso vale in qualche modo per l’intero pianeta: la crescita complessiva della sua economia implicherà una crescita (tendenziale) delle riserve complessive in valuta estera.
La posizione dominante del dollaro USA come principale valuta di riserva (il principale concorrente del dollaro è l’euro, la cui quota nelle riserve ufficiali è al momento limitata al 21%) e in generale come valuta egemone nel pianeta, ha fornito, dal dopoguerra ad oggi, indubbi vantaggi a questo paese.
L’elevata richiesta di dollari, per il commercio internazionale (otre il 45% è in dollari) e sotto forma di valuta di riserva, permette agli USA di avere costi di finanziamento relativamente bassi e poter emettere debito e stampare moneta senza preoccuparsi eccessivamente sia del deprezzamento della loro valuta sia dei costi e dell’ammontare del debito stesso (anche quello verso l’estero). Per dirla in maniera più semplice, ci sarà sempre qualcuno pronto a venire incontro all’offerta di valuta e di debito USA.
Il fatto di essere titolare della valuta più scambiata evita agli USA di doversi preoccupare di detenere quote consistenti di valuta di riserva dato che potrà commerciare in buona parte con la valuta che emette evitando quindi i costi di cambio e buona parte delle incertezze dovute al cambio stesso. Nel momento in cui una buona parte degli scambi internazionali avvengono in dollari e il dollaro è ovunque accettato, l’esigenza di detenere una quota di valuta estera di riserva per commerciare e a scopo prudenziale per non incorrere in quella che viene definita una “crisi della bilancia dei pagamenti” è molto più bassa che in altri paesi (basti dire che tutti gli scambi in materie prime avvengono ancora in questa valuta) e non è un caso che gli Usa di riserve valutarie ne detengano molto poche. A questo si aggiunge il vantaggio politico nel poter controllare, tramite il proprio sistema bancario, i finanziamenti in dollari (è la Federal Reserve che in ultima istanza stampa questa valuta e sono le banche americane quelle da cui possono arrivare i finanziamenti in dollari). Gli Usa possono quindi facilmente decidere di bloccare il flusso della principale valuta mondiale nel caso in cui ritengano di dover “punire” qualche paese a loro ostile (sul controllo dei finanziamenti si basa innanzitutto il successo delle politiche di embarghi e sanzioni).
Ma qual è il futuro del dollaro USA e in quale misura è destinato a durare come valuta egemone?
Quanti sostengono inevitabile, in tempi più o meno brevi, un suo tramonto, lo fanno sulla base di due principali argomentazioni. La prima è il crescente debito USA (sia interno, sia verso l’estero) con cui negli ultimi 40 anni il paese ha alimentato la propria crescita economica. Il problema è che la prosecuzione di una simile politica rischia di far perdere agli asset (e alla valuta) americani, progressivamente valore, sino a non essere più riconosciuti come asset sicuro e “risk free”.
Il problema degli USA è però difficilmente risolvibile, e qui arriviamo alla seconda argomentazione, perché anche qualora gli USA smettessero di indebitarsi con l’estero, smetterebbero così di fornire la liquidità al pianeta per alimentare la crescita e le riserve valutarie di cui il sistema necessita e il ruolo del dollaro sarebbe progressivamente sostituito da qualche altra valuta. Se è vero quindi che il mondo necessita di valuta di riserva per finanziare i propri scambi commerciali, il destino del paese che la possiede è quello di accrescerla almeno in misura eguale alla crescita dell’economia mondiale. Il problema principale è che la crescita del PIL USA è decisamente inferiore a quella del PIL mondiale, quindi le alternative sono due: o gli USA sono destinati ad accrescere il proprio deficit con l’estero in maniera illimitata (sino a che diverrà insostenibile, insieme al debito complessivo) oppure il ruolo del dollaro tenderà progressivamente ad indebolirsi sino ad essere scalzato da altri.
Queste argomentazioni (che ciclicamente ritornano da almeno 20 anni, senza che nulla sino ad ora sia accaduto) si espongono a nostro parere ad alcune critiche fondate. Riguardo la prima (debito e deficit estero stanno diventando insostenibili), se è vero che il deficit USA rispetto all’estero è in costante crescita dagli anni ’80 ed è arrivato a creare una posizione finanziaria netta negativa per 14.000 miliardi di dollari (pari al 62% del suo PIL attuale), è anche vero che questa crescita è dal 2006 in costante rallentamento (rispetto al PIL). Anche pensando al debito pubblico, se è vero che esso è raddoppiato rispetto al 2008, arrivando nel corso del 2020 a superare il 130% rispetto al PIL (il rapporto è tuttavia destinato a calare nel corso del 2021), è anche vero che ci sono esempi di paesi che ne hanno uno quasi doppio e pur con crescita del PIL inferiore non danno per ora alcun tipo di preoccupazione di sostenibilità (stiamo parlando del Giappone).
Soprattutto, nonostante tale deficit estero e debito, non esistono al momento segnali di un calo della fiducia nella valuta americana e nel loro debito, e questo è apparso tanto più chiaro nei mesi successivo lo scoppio della pandemia nel 2020, in cui è salita alle stelle la richiesta di dollari (e di treasury) da parte dei mercati, tanto da costringere la Federal Reserve a riaprire (come già era stato durante la crisi dei mutui subprime) delle linee di credito dedicate (swap lines) che permettessero alle principali banche centrali di approvvigionarsi di dollari direttamente invece che passare dal mercato (in cui questi scarseggiavano).
Riguardo la seconda argomentazione (il crescente debito e deficit USA sono inevitabili per mantenere una posizione di valuta egemone e di riserva), pare altrettanto quantomeno dubbia la sua fondatezza. Non solo, infatti, non si evidenzia dal dopoguerra ad oggi alcuna correlazione degna di nota tra il deficit USA e la loro posizione di valuta di riserva, anzi, la diffusione del dollaro nei tempi in cui il paese era in surplus era ben maggiore di quella attuale, ma soprattutto, la quantità di liabilities in circolazione denominati in una certa valuta (ad esempio in dollari) non sono per forza debito del medesimo paese che emette quella valuta, e sta proprio qui la forza di una valuta egemone, nel fatto che anche paesi che non la emettono possono decidere di “creare debito” in quella medesima valuta, senza che le liabilities del paese che tale valuta emette (in questo caso gli USA) crescano. Non è un caso che il debito in circolazione nel mondo denominato in dollari sia ben superiore al debito effettivo degli USA. Secondo i dati forniti dalla BIS, su oltre 50.000 miliardi di titoli di debito denominati in dollari, poco più i 40.000 sono debito USA, quindi circa 10.000 non lo sono e a questo si vanno a sommare gli “almeno” 6000 miliardi di depositi bancari emessi in dollari fuori dagli USA. Insomma, la crescita della quantità di liabilities in dollari (disponibili per divenire valuta di riserva) non è solamente correlata con l’indebitamento USA e la loro quantità può crescere senza che cresca l’indebitamento del paese sovrano che emette dollari.
Come ultima argomentazione si può osservare che, non solo la Cina sia riuscita ad affermare una crescita (seppur modesta) del ruolo della sua valuta negli ultimi anni (passando dallo 0 al 2,5% nel paniere delle riserve ufficiali), nonostante un saldo con l’estero costantemente positivo, ma soprattutto, l’euro non pare aver patito la crescita del surplus commerciale europeo in termini di diffusione (timore che invece esisteva quando questa valuta fu creata).
Insomma, anche se gli USA dovessero porre fine alla crescita del loro debito e deficit (con scelte politiche che peraltro da alcuni anni stanno già tentando di fare, seppur con scarso successo per il momento), se è vero che questo sarebbe un cambio di paradigma economico (e finanziario) per il pianeta, non per forza significherebbe la fine del dominio della loro valuta.
Il successo del dollaro, del resto, non va ricercato solo andando ad analizzare il loro sistema economico e finanziario, ma anche estendendo la visione oltre: da un lato alla capacità del paese di mantenere una egemonia globale, che non si basa solo sulla forza economica e finanziaria, ma anche sull’egemonia politica e militare (le due cose si muovono in maniera parallela e si rafforzano a vicenda) e dall’altro dando uno sguardo a quelli che potrebbero essere i suoi competitor. La diffusione di una valuta è frutto non solo di un cambio di abitudini da parte degli operatori economici, ma anche della “fiducia” del sistema nella stabilità di chi la emette, fiducia che, per motivi opposti, né l’euro, né lo Yuan paiono ancor aver acquisito a sufficienza.
Per un maggiore approfondimento sul sistema finanziario USA e sul ruolo del dollaro nel sistema valutario, potete fare riferimento a questo nostro report.
Se la diffusione del dollaro americano nel mondo rappresenta un caso di sovra rappresentazione rispetto alla reale forza dell’economia statunitense, la valuta cinese, il renminbi (detto anche yuan) è, all’esatto opposto, assai poco diffuso rispetto al ruolo di seconda potenza economica che il dragone ha raggiunto. Se il PIL cinese è circa il 13% di quello mondiale, la sua valuta ha una importanza ancora marginale negli scambi valutari stessi, nel commercio internazionale e negli investimenti internazionali di capitali. Questo è il risultato di una scelta delle autorità cinesi che hanno sempre adottato una politica di controllo dei capitali e del tasso di cambio. Nonostante le limitate aperture su entrambi i fronti, il governo cinese tuttora esercita un forte controllo sui capitali in entrata e in uscita nel paese ponendo limiti e controlli sui privati e alle imprese per l’uscita degli stessi ed esercitando un controllo, tramite autorizzazione, sulle istituzioni che possono investire in Cina.
Le ragioni di questa scelta si legano alla storia economica del paese degli ultimi 40 anni e fanno un tutt’uno con una scelta del governo di aprire all’economia di mercato e agli investimenti esteri pur mantenendo la guida dell’indirizzo economico e degli investimenti stessi in mano al governo e dunque al Partito Comunista. Permettere una libera circolazione di capitali esporrebbe il paese ad alcuni rischi che sono sino ad ora stati incompatibili con le scelte del governo. In primis, il sistema bancario, vera istituzione cardine del sistema finanziario del paese e principale veicolo delle politiche di crescita economica, non reggerebbe una fuoriuscita di capitali ad opera degli investitori e risparmiatori interni. Il sistema potrebbe avere seri contraccolpi soprattutto in caso di crisi finanziarie internazionali, rischiando fenomeni di fuga di capitali. Allo stesso tempo un afflusso di capitali incontrollato rischierebbe di far perdere il controllo del valore della valuta rendendo quindi meno competitive le esportazioni del paese, uno dei cardini su cui si è basato il modello di crescita cinese, almeno sino ad ora. Con lo stesso obiettivo (non perdere il controllo del valore del tasso di cambio, in particolare verso il dollaro), il governo cinese ha, dalla fine degli anni ’70, in diversi modi cercato di controllare il renminbi. Inizialmente operando una forte svalutazione rispetto al periodo dell’epoca di Mao, poi adottando un sistema di “peg” (cambio fisso) verso il dollaro e poi, arrivando ai giorni nostri, creando una banda di oscillazione giornaliera (attualmente del 2%) oltre la quale la banca può intervenire (a rialzo o a ribasso) per far rientrare le oscillazioni entro il limite massimo concesso. In questo scenario la banca centrale cinese si riserva di intervenire nel caso di eventuali crisi finanziarie o valutarie che rischiano di provocare eccessiva instabilità (è successo nel 2015), operazioni che non sono mai state un problema per la banca cinese, dato che il costante surplus della bilancia commerciale ha permesso alla Cina di accumulare ingenti riserve valutarie, soprattutto in dollari, con cui ha potuto operare tali, eventualmente necessarie, operazioni di difesa del cambio.
Eppure, nel corso degli anni i dirigenti cinesi si sono posti il problema di rafforzare il ruolo della propria valuta sul mercato internazionale, pur non rinunciando a nessuna delle opzioni su cui in questi anni hanno basato la loro politica finanziaria, in modo particolare il controllo del flusso di capitali. Il motivo per cui queste politiche hanno limitato l’utilizzo del renminbi all’estero è abbastanza intuitivo: è difficile che gli operatori esteri decidano di utilizzare per gli scambi (e soprattutto per gli investimenti) una valuta che difficilmente potrà essere utilizzata se non per commerciare con la Cina, dato che una volta entrato in possesso di renminbi un operatore non sa se e in quale misura potrà riutilizzarli o investirli, visto che il mercato dei capitali è limitato in ingresso e la possibilità di investire in obbligazioni o azioni cinesi (anche quelle quotate all’estero, definite off-shore) è ancora limitato per i non residenti. A questo si aggiunge ovviamente il fatto che il valore del renminbi stesso è affidato in parte alla politica monetaria della Banca centrale cinese (che in alcune fasi è in passato intervenuta pesantemente) più che al valore che il mercato potrebbe prezzare.
L’interesse delle autorità cinesi a definire un ruolo internazionale per il renminbi e che negli anni le ha via via portate a cercare di renderlo più attrattivo ha soprattutto a che fare con i costi che la scarsa diffusione del renminbi a livello internazionale porta con sé. Il fatto che il renminbi sia utilizzato ancora poco negli scambi internazionali implica la necessità di effettuare gli scambi con l’estero in altre valute e dover quindi sostenere elevati costi di transazione (per cambiare i renminbi in dollari) e tra le conseguenze ci sono quelle di ritrovarsi con ingenti riserve valutarie, con le quali tra l’altro si finanziano le proprie importazioni (che avvengono prevalentemente in dollari); riserve che però, in grosse quantità, espongono il paese al rischio di perdite a fronte di una svalutazione del dollaro, oltre che essere, nei fatti, una forma di finanziamento verso il paese che sempre più è diventato un antagonista geopolitico. Da non sottovalutare sono anche le difficoltà che si avranno nel momento in cui si dovesse avere bisogno di indebitarsi verso l’estero (per finanziarsi) e non lo si potrà fare nella propria valuta (dato che difficilmente i prestatori esteri si vorranno accollare il rischio di fare credito in renminbi che sono considerati una valuta debole e dal valore al termine del prestito incerto). Limitate sono anche le possibilità di prestare denaro a paesi esteri nella loro valuta (per compensare i crediti in valuta straniera), se non prestando a paesi in condizioni finanziarie disagiate e con elevate possibilità di non restituzione del prestito. Infine, nei momenti di crisi internazionale (come lo fu la fine del 2008 e i mesi successivi al marzo 2020), si rischia di essere eccessivamente esposti a una mancanza di dollari (come normalmente succede in queste fasi), valuta che è “stampata” dal principale concorrente egemonico.
Insomma, a partire almeno dal 2009, anno in cui la Cina raggiunse un picco di riserve estere in dollari e in cui per un periodo vennero a mancare i dollari nel sistema a seguito della crisi dei mutui subprime, il governo cinese si è posto il problema (senza pur mai ufficializzarlo in nessun documento) di accrescere la diffusione della sua valuta, cercando così di limitare la sua dipendenza dai dollari (al fine di non incorrere nei problemi appena esposti). Le mosse fatte sono andate in due precise direzioni: la prima è di accrescere l’uso della propria valuta negli scambi commerciali e il secondo di cercare di farla diventare una valuta di investimento internazionale.
Dal 2010 una delle prime mosse del governo cinese per cercare di incentivare l’utilizzo del renminbi come valuta di scambio fu quella di iniziare ad autorizzare alcune aziende ad effettuare scambi fuori dalla Cina in quella valuta (utilizzando prevalentemente il mercato di Hong Kong), ma i risultati non furono soddisfacenti, dato che l’utilizzo veniva limitato agli scambi commerciali, ma difficilmente gli operatori esteri detenevano i renminbi al di là dello stretto necessario per le attività di scambio, non avendo poi possibilità di investirli. La consapevolezza di questo limite indusse le autorità cinesi a lanciare una nuova valuta, il renminbi off-shore, che era pienamente flessibile e convertibile, ed utilizzabile esclusivamente all’esterno del paese.
L’utilizzo del renminbi off-shore (la sua sigla è CNY, per distinguerlo da quello on-shore, CNH) ha accresciuto la circolazione del renminbi e nel 2016 lo stesso è entrato a far parte delle valute di riserva del FMI. Nello stesso tempo sono stati aperti centri di scambio in renminbi off-shore anche in alcuni paesi occidentali come UK, Germania, Canada, al di là delle aree limitrofe alla Cina come Hong Kong, Taipei, Seul e Singapore, in cui avviene la gran parte degli scambi e sono presenti la maggior parte dei depositi. Le restrizioni del governo al movimento di capitali comunque rimangono e la liquidità del renminbi off-shore è limitata (circa lo 0,7% dell’offerta di moneta circolante in renminbi onshore, il 2% del suo PIL e meno del 10% delle riserve valutarie del paese). Rimangono ovviamente le restrizioni al rimpatrio di capitali da parte degli stranieri che disincentivano gli operatori ad utilizzarlo per investire in Cina, esso continua quindi ad essere utilizzato prevalentemente come mezzo di scambio.
Se la quota di renminbi off-shore utilizzati per gli scambi con la Cina è aumentata sino a raggiungere la quota del 20% (era del 2% circa nel 2010), rimane pure limitata la quota nel totale degli scambi internazionali (inferiore al 2%) nonostante la Cina abbia recentemente creato un suo sistema di pagamento che vuole essere alternativo al sistema SWIFT. Limitata è anche la quota di riserve estere detenute in renminbi (inferiore al 2% del totale, a fronte di un 60% in USD e un 20% in euro).
In conclusione, pur avendo fatto molti passi avanti nella sua diffusione, il renminbi pare orientato a poter diventare per ora solo una valuta regionale (il 90% degli scambi avvengono nelle aree limitrofe alla Cina). Lo strumento dell’utilizzo di una doppia valuta è visto del resto, nelle intenzioni del governo, come un passo intermedio e non definitivo per una maggiore diffusione della propria moneta. Nello stesso tempo, la consapevolezza delle riforme che sarebbero necessarie renderà comunque molto graduale il cammino verso la rinuncia al principale strumento che nei fatti ne rende difficoltosa una maggiore diffusione a livello internazionale: il controllo del movimento dei capitali.
Per un approfondimento su sistema finanziario della Cina potete fare riferimento a questo nostro report:
Nelle giornate del 16 e 17 marzo si è tenuta la riunione del FOMC della Federal Reserve. Il FOMC (Federal Open Market Committee) è un organo che si riunisce otto volte all’anno, costituito da 12 membri, tra cui i 7 membri permanenti di nomina presidenziale. Durante le sue riunioni vengono definite le cosiddette politiche di mercato aperto, tramite le quali la Federal Reserve influenza il tasso di interesse principale, il cosiddetto Fed funds rate, che è il tasso interbancario a cui le banche e altri operatori finanziari si prestano denaro tra loro. Ne abbiamo parlato in maniera approfondita in questo articolo. https://www.dirittofuturo.org/?p=884
Un documento che viene prodotto dal FOMC trimestralmente è il cosiddetto “dot plot” in cui (come mostrato nell’immagine che abbiamo allegato), tramite dei puntini, i membri del cosiddetto Board of Governors (costituito da 19 membri, quindi un organo più allargato del FOMC, che include tutti i rappresentanti delle 12 banche del Federal Reserve System) indicano, per i tre anni successivi, le loro aspettative riguardo il range in cui si troveranno i Fed funds rate. Oltre a questo, vengono indicate anche le aspettative di lungo periodo che riguardano il picco di tasso che i membri si attendono nel momento in cui la politica monetaria della banca centrale sarà normalizzata (e quindi verranno meno le manovre espansive in corso). Il documento è sempre molto atteso perché, oltre a dare ai mercati la sensazione di quali siano le opinioni della Fed, influisce sulla decisione sui tassi stessi.
L’ultimo “dot plot” rilasciato evidenzia come tutti i membri che hanno espresso una indicazione (18) prevedano tassi invariati nel 2021 e sino al 2023 la maggioranza di loro continui a vederli nel range tra 0 e 0,25%. Stando alle attuali previsioni i tassi potrebbero variare solo a partire dal 2024. È evidente che tali aspettative possono mutare sulla base di diversi fattori, come la crescita economica, l’inflazione, l’occupazione e la stabilità finanziaria dell’intero sistema degli Stati Uniti (e non solo, dato che come sappiamo l’influenza delle decisioni della Fed arriva ben al di là dei confini del paese di cui definisce, direttamente, le politiche monetarie).